Postato il Mar 24 Set 2013 da in La vita del Club

Le ragioni degli altri

Più per curiosità che per dovere, ho risalito le ragioni che hanno portato al discusso bando per un logo di Firenze. (Se vi siete persi le puntate precedenti le trovate qui, qui e qui)

Ho scritto, ho chiesto un incontro, l’ho ottenuto, ho trovato persone capaci e, per l’idea che mi sono potuta fare, benintenzionate. Ho letto la regolamentazione dei diritti d’autore applicata dal sito Zooppa, ho seguito i lavori del comune di Firenze nell’ambito della collaborazione sino-italiana con Shanghai sul tema del design, ho incontrato di nuovo – insieme al socio Aimone Bonucci – Simone Tani, nell’ufficio del responsabile della comunicazione Giovanni Carta.
Abbiamo definito i seguenti punti su cui si lavorerà insieme entro il 15 ottobre in modo da migliorare il percorso di selezione dei lavori:

– definizione del criterio/concept chiave
– definizione linea guida strategica
– comunicazione brand vincitore e 30 nominati (idee e proposte)
– licensing e merchandising – linee guida
– studio delle best practice e delle criticità di città che hanno già avviato progetti di brand
– definizione possibilità di utilizzo brand non vincitori
– commissione giudicante
– aspetti legali

Nel frattempo ho scambiato opinioni all’interno della delegazione fiorentina con designer, architetti e ristoratori, imprenditori del made in Italy.
E sono arrivata alla conclusione che non voglio occuparmi di questa materia.

È materia che riguarda il futuro di questa professione, perciò riguarda chi ha almeno la metà dei miei anni.
Il mondo cambia velocemente, e il diritto d’autore è sottoposto a sollecitazioni di ogni tipo, dalle licenze creative commons al peer to peer: schiere di legali se ne stanno occupando, presto si arriverà a norme nuove, più adatte alle nuove tecnologie della comunicazione. Argomento ampio e complesso che non è possibile approfondire in queste righe.

Vi darò però qualche elemento di riflessione intorno alla vicenda Firenze-Zooppa:

in una filiera di produzione di profitto è iniquo che alcuni attori raccolgano la maggior parte del reddito: la grande distribuzione a scapito degli agricoltori, i brand di articoli sportivi a danno dei produttori, per esempio.
Anche in questa filiera della comunicazione si verifica una simile stortura: se per esempio il marchio di Firenze fosse ceduto dal comune a una società che commercializzasse gadget fatturando milioni di euro, si verificherebbe una spartizione terribilmente iniqua del profitto.

Produrre creatività per la comunicazione nel ‘900 è stato un mestiere. Un mestiere su commissione, che quindi prevede un unico acquirente per il manufatto che è progettato su misura per risolvere una specifica problematica.

I concorsi di idee applicati alle opere dell’ingegno sono esistiti per tutto il secolo, erano basati per lo più su gare a inviti per meriti e titoli, e prevedevano che le spese sostenute per fare X gare fossero coperte da quella gara su X che si vinceva. Questo modo di procedere selezionava nel tempo i migliori, e costringeva i peggiori a cambiare mestiere.
Non posso tralasciare il fatto che i concorsi fossero spesso truccati, e che la selezione a volte ha premiato solo i più ammanicati, o i più spregiudicati, e ben per questo la gente tenta di trovare percorsi alternativi, alla ricerca di apertura e onestà.

Ora metodi come quello di Zoppa sono sperimentazioni di nuovi modelli, che non rispettano le ratio previste dal modello tradizionale. Una probabilità su 2.000 di vincere un premio che non copre neanche i costi del lavoro in oggetto, se prodotto con serietà, non consente di classificare questa attività di progettazione come “lavoro”.

Ma forse noi graphic designer siamo come gli scriba. Nell’antico Egitto solo alcuni sapevano scrivere, e gli altri li pagavano per i loro servigi. Tra qualche anno il publishing creativo sarà una disciplina scolastica, tutti sapranno dell’immagine tanto quanto ora sanno del testo: caratteri tipografici, forme, colori e loro significati costituiranno materia obbligatoria dalle elementari al liceo. Sarà bello: già oggi un ragazzino di 12 anni fà con l’iphone foto migliori di quanto non facciano mediocri professionisti col banco ottico.
Perché la comunicazione non ha a che fare con la tecnica, ma con l’onestà dell’ispirazione: non c’è miglior comunicatore di colui che crede appassionatamente in quello che sta dicendo.

Un giorno il lavoro intellettuale forse non esisterà più, torneremo tutti a zappare e disegneremo per hobby. E informeremo per hobby. E canteremo per hobby. Può darsi che il web arrivi dove non è riuscito Mao. In fondo anche a me stanno più simpatici i contadini umbri dei creativi milanesi.

Ma per adesso c’è ancora chi ha fatto della grafica il proprio mestiere, e con dedizione e passione ha studiato, imparato dai maestri e insegnato agli allievi, in quella che è la più bella tra le attività umane: tramandare l’arte del fare bene, del fare cose belle e nel modo giusto: un lavoro lungo un secolo che ha prodotto materiale che nutre mostre, come l’ultima bellissima mostra sulla grafica italiana alla Triennale di Milano.

Da giovane non volevo vedere pubblicata la prima cosa che mi veniva in mente: ho fatto di tutto per trovarmi dei maestri, ho fatto l’assistente a tre art director senior per 4 anni prima di fare un lavoro come autore, sono stati gli anni più belli della mia carriera, e ho sempre rimpianto di non aver avuto una formazione più lunga.
Se la progettazione creativa diventa invece un gioco, una lotteria, nessuno potrà più considerarlo un lavoro: provate a chiedere un mutuo portando l’iscrizione a Zooppa come garanzia.

Che il brief di questo logo poi sia scritto coi piedi – un foglietto che nelle agenzie del ventesimo secolo qualsiasi junior account avrebbe rifiutato di sottoporre ai creativi – fa parte di un amarcord a cui non voglio indulgere. Le cose che facevamo noi dovevano durare, quelle di oggi, no. Sarebbe come rimproverare a Ikea che i suoi mobili non resistono una vita come quelli dei mobilieri brianzoli del dopoguerra: i matrimoni durano anche meno.

Ma torniamo al nostro contest (come escort e spending review, parole che servono al riciclaggio di concetti poco attraenti, per renderli “sexier”):
Il giorno dopo la pubblicazione del bando erano già stati caricati 70 lavori. Oggi ce ne sono più di mille. Mancano ancora tre settimane alla deadline.
E la commissione giudicante? Dovrebbe essere competente e imparziale. Il committente ci dà fiducia e ci chiede di suggerire una rosa di nomi. Lo apprezzo. Ripenso alla settimana passata a Cannes, chiusa in sale buie per 5 giorni con altri 20 giurati, divisi in tre gruppi per la prima selezione, poi tutti insieme per altre due selezioni: abbiamo guardato 3.500 spot da 30 secondi. Per essere affidabile il giudizio su questi loghi richiederebbe almeno un processo simile. Una giuria di pochi membri e poche ore riesce al massimo a valutare un centinaio di lavori, non di più.
E i criteri? Anche qui al comune si dimostrano intelligenti, ci propongono di buttare giù insieme delle linee guida per la commissione: meglio tardi che troppo tardi.

Ovviamente tutta la responsabilità dell’imparzialità e competenza della commissione è di Zooppa, il comune si limiterà ad adottare un progetto scelto senza i criteri stabiliti per le gare pubbliche, e fuori dalle linee guida internazionali Icograda.

Io vi ho raccontato tutto quello che ho saputo studiandomi il problema. Non ho motivo per polemizzare oltre col comune di Firenze, che sta risparmiando soldi pubblici utilizzando uno strumento disponibile sul mercato: lo strumento c’è perché c’è chi lo usa, e ne è pure entusiasta. Forse tra qualche anno il rapporto numero di gare/numero di contendenti renderà questo sistema più equo.
Quel che è certo è che la comunicazione prevede addizioni a due cifre, e equazioni di sesto grado. Il logo di un nuovo negozio di scarpe è un’addizione a due cifre. Il branding di una città è un’equazione di sesto grado. Un disegno per il merchandising di magliette e cappellini è di nuovo un’operazione semplice, ma di contro prevede uno sfruttamento commerciale che genera molti soldi, nonché un brief tutto diverso.

La nostra proposta a Firenze è questa: usate il concorso per scaldare la cittadinanza, per ottenere visibilità, buona stampa e coinvolgimento. Usate la selezione dei 30 lavori migliori come un brainstorming della comunità globale intorno al percepito di Firenze, per metterne a fuoco le potenzialità.
Se c’è un’intuizione vincente fatene il punto di inizio di un percorso di branding con un preciso obiettivo di posizionamento. Se invece c’è solo un progetto di merchandising riconoscete al vincitore una royalty sul fatturato.
E ricordate sempre di essere committenti eredi dei Medici, un privilegio e una responsabilità che fa male vedere incompresi.

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