The Spark of Paola Cecere
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“E anche oggi, abbiamo fatto la storia della pubblicità.“
Ogni giorno a fine giornata prendo lo zaino e saluto i miei con un “…e anche oggi, abbiamo fatto la storia della pubblicità/dell’intrattenimento/dei reactive/dei biscotti (insomma dipende dal caso)”. Lo faccio perché fa sorridere e perché credo davvero che ognuno di noi possa nel suo piccolo cambiare in qualche modo lo scorrere degli eventi.
E se non ci credete siete dei disillusi.
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E noi di TheSpark non possiamo che essere più che d’accordo con te, Paola!
Oh, ma che maleducati. Dove sono finite le buone maniere? Ricominciamo:
Siori e siore, ecco a voi Paola Cecere, 27 anni, Copywriter in DUDE da 4 (che in anni di pubblicitari sono tipo 16) e oggi anche ospite e protagonista in questa nuova puntata di TheSpark, la rubrica ADCI dedicata alla scintilla che ha dato vita alla passione per la creatività dei talenti Under 30.
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Questo è il suo Spark
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“Posso vantare una storia molto romantica sul mio ingresso nel mondo dell’advertising.
Quando avevo 17 anni vidi in TV una pubblicità di McDonald’s per l’Expo.”
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“Mi innamorai dalla frase finale (la chiamavo così) e decisi – dopo 17 lunghi anni a dire che da grande volevo fare qualcosa di creativo, qualsiasi cosa significasse – che io di lavoro volevo “scrivere le frasi a effetto alla fine delle pubblicità” (lo dicevo proprio così).
Questo mi ha portato ad iscrivermi a Scienze della Comunicazione nella mia Salerno, la cosa più teoricamente simile – e vicina a casa – per iniziare a capire qualcosa sulla pubblicità, anche se tutta quella teoria mi annoiava.
Poi un giorno, il corridoio della mia facoltà fu tappezzato di locandine di un Master IED in Creative Direction, a Milano. Un po’ più lontano da casa, un po’ più vicino al lavoro che volevo davvero fare. Vinsi una sedia nei bootcamp di Jack Blanga e una borsa di studio per potermelo permettere.”
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“A quel master insegnava copywriting Francesco Muzzopappa, che saluto.
Fu lui a dirmi “un mio collega cerca qualcuno per uno stage, in Wunderman Thompson”.
E fu così che googlai il nome del mio futuro direttore creativo: Marco Rocca, che saluto.
Lo stesso che 6 anni prima aveva firmato la campagna di McDonald’s per l’Expo.
Incredibile, vero?
E se ti è piaciuto il racconto del destino di McDonald’s amerai la storia di quando la pandemia interruppe il mio stage in WT nel momento in cui DUDE cercava un copywriter junior. Tutta una serie di persone iniziò a dirmi che era proprio l’agenzia che faceva per me ed evidentemente avevano ragione.”
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Finita la parte romanzata direi che possiamo tornare ad una classica impostazione domanda-risposta.
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Che cosa ti guida nella ricerca dell’eccellenza creativa?
Le eccellenti persone che mi circondano. Le scintille degli altri, per dirla a tema con questa intervista. Tutte quelle persone che hanno la dedizione, la voglia e il talento per aggiungere sempre quel qualcosa in più. Che sia un dettaglio, una parola, un props, una reference, un punto di vista. Chi, nemmeno nei più semplici dei brief, si ferma alla superficialità ma ha voglia di fare le cose bene a prescindere. I secchioni, gli appassionati, i perfezionisti. Quelli che si impegnano per un copy post quanto per uno script. In un mondo che fa sempre più fatica ad avere cura e pazienza sono loro i veri eroi dell’advertising.
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Come si alimenta la tua fiamma? Cosa ti porta a perseguire questo percorso?
Credo ci siano 2 fattori: ispirarsi e lasciarsi ispirare. Una buona parte di questa fiamma esiste da sempre dentro di me e vive di vita propria, ha fame e si auto-alimenta di qualsiasi cosa possa vedere intorno. È una combo tra creatività – che è sempre stata il mio tutto, che ha forgiato il mio carattere, il mio stile di vita e il mio modo d’essere – e voglia, tantissima voglia di vedere le proprie idee prendere vita, di prendersi tutto ciò che una città provinciale non ti permette di avere, di dare speranza ai miei coetanei e di sapere di far parte di qualcosa di più grande che può davvero in qualche modo fare la differenza nel mondo.
Il secondo fattore invece è lo studio. Guardare cosa ci succede intorno, cosa fanno gli altri e come lo fanno. E non parlo solo di pubblicità.
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Quale campagna avresti voluto creare? E per chi?
A costo di risultare banale citerò LO spot e ti piazzo qui Francesca di Diesel e potrei dirti un milione di motivi, tra cui ovviamente la scrittura, se giochi ad immaginare lo script di questo film. In verità la cosa che mi smuove di più è che in Italia se ne vedono ancora troppe poche di storie come questa. Non è un caso che Francesca abbia un sapore totalmente internazionale e che nonostante il nome e il crocifisso sembri tutto fuorché una storia italiana. A costo di far discutere non dobbiamo mai dimenticare il ruolo sociale del nostro lavoro, e questo lo dico nei confronti di qualsiasi argomento, non solo della comunità a cui appartiene Francesca. Le suore, intendo.
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Quali valori o idee vuoi trasmettere con la tua Scintilla?
Oh finalmente, basta parlare di me. Parliamo di qualcosa di più importante: i giovani.
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Chi mi conosce sa quanto ci tengo e ora starà pensando bastaaaa per quante volte lo ripeto,
ma la mia personale missione è dimostrare che questo mondo può essere alla portata di tutti, se solo facessimo delle differenze generazionali un punto di forza.
Spendo 2 righe sulla tanto nominata Gen-Z di cui faccio tardivamente e gelosamente parte. Tutti ne parlano, tutti la raccontano, tutti la scelgono come target ma nessuno sembra mai davvero capire cosa si provi ad essere figli di questi tempi, di queste insicurezze, di questa instabilità, di queste rinunce e di questi stipendi. Detto questo, vorrei poterne fare un tema anacronistico ed estemporaneo, per me questo è un discorso che varrà anche quando sarò io ad avere 60 anni e la Gen Gamma starà sparando raggi laser su Marte riprendendosi con un modello Sony Vintage del 2020.
È la storia più vecchia del mondo: i giovani dello ye-ye scendono in piazza per ascoltare i Beatles e il TG ne fa un caso sociologico perché vestono in un certo modo, appaiono talmente spensierati che sembrano disinteressati e il giudizio non li spaventa. Ci siamo ritrovati in un mondo costruito su misura per qualcun altro in cui oscilliamo tra un doverci fare spazio a gomitate e l’essere valutati come un esperimento di laboratorio. Lo vedo quando parlo con i ragazzi delle scuole, dello IED, di recente della Holden, e pensano che non sapere cosa voler fare dopo sia un male. O quando hanno le idee chiare ma hanno paura di essere fin troppo ambiziosi, che sognare sia da stupidi.
Poi il nostro è un settore viziato.
Vuole inculcare ai nostri ragazzi che se non vinci premi non sei un vero pubblicitario, che se scegli l’azienda e non l’agenzia sei noioso, che se non fai notte e weekend il tuo lavoro non verrà mai bene.
La nostra generazione, di tutta risposta, è diventata veloce – da non confondere con la superficialità – furba, pragmatica e sentitamente disinteressata alla gloria morale. Stiamo tornando al sud, al lavoro da remoto, alla sana ricerca di tempo e spazio per essere noi stessi, senza sapere di dover rinunciare per forza a qualcosa. Abbiamo capito che l’unico modo per sopravvivere in un mondo così inaffidabile è chiederci: cosa è davvero importante per me?
E lottare per ottenerlo.
Ciò che agli occhi degli altri potrebbe risultare insufficiente è l’apoteosi dei propri personali valori etici e morali.
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Cosa sogni di raggiungere?
Non lo so, nel senso buono del termine. Sono sempre stata molto eclettica e mi piace l’idea di poter provare quante più cose diverse un domani, variare nelle realtà lavorative, nelle skill, nelle task e altri anglicismi. Solo di una cosa sono abbastanza sicura: non farò mai sempre la stessa cosa.
E quindi, per rispondere alla tua ultima domanda: dopo una giovane vita in un mondo costruito su misura degli altri, su valori del passato e sugli orari di una volta forse, tra 10 anni, mi immagino in una realtà tutta mia.
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