Logo di Firenze. Facciamo il punto. (di Aimone Bonucci)
“Dica pur chi mal dir vuole,
noi faremo e voi direte”
– Canti Carnascialeschi –
Lorenzo il Magnifico fece cantare questi versi contro le maldicenze del popolo durante le celebrazioni del Carnevale del 1489, a Firenze, e queste parole seppur vecchie di 500 anni, non hanno perso la loro forza evocativa carica della goliardìa e della schiettezza che sta cara ai fiorentini. Ed è proprio anche con questo spirito, lontano da ogni biasimo o complottismo nei confronti della Pubblica Amministrazione, che ADCI si congeda dalla volontà di supporto al Comune di Firenze nella gestione e nello sviluppo del concorso per il marchio da destinare alla città.
Durante l’ultimo incontro con Simone Tani del 17 settembre abbiamo redatto 8 punti sui quali lavorare insieme (li riscrivo ma la questione è stata già ampiamente affrontata da Paola Manfroni nel suo precedente post)
1) definizione del criterio/concept chiave
2) definizione linea guida strategica
3) comunicazione brand vincitore e 30 nominati (idee e proposte)
4) licensing e merchandising – linee guida
5) studio delle best practice e delle criticità di città che hanno già avviato progetti di brand
6) definizione possibilità di utilizzo brand non vincitori
7) commissione giudicante
8) aspetti legali
Non abbiamo più avuto altri contatti, pertanto in accordo con Aiap, Adci ha deciso di ritirare la propria offerta di collaborazione, dal momento che non ci sarebbero state le condizioni minime per garantire un lavoro professionale della giuria.
La realtà ha superato le nostre previsioni:
Parafrasando le parole di Paola, la conclusione che ADCI ha preso nei confronti del Comune è questa: “Sono tutti temi che dovete affrontare internamente. Noi abbiamo dato la nostra disponibilità a partecipare ad incontri sulla successiva strategia di comunicazione, necessari preliminarmente per dare indicazioni alla giuria su cosa esattamente selezionare, ma questi incontri non si sono verificati”
Inoltre, andando ad analizzare nel dettaglio questo elenco, ADCI si è offerto, senza risposta alcuna, di lavorare sull’analisi delle best practice, sulla definizione del concept (questo sarebbe stato salire su un treno già in corsa, dato che indire un concorso per il progetto di un marchio che rappresenti la città senza un’analisi di senso – dal punto di vista semiotico del termine – è di per sé un ossimoro) e sulla costruzione della commissione giudicante. Ecco, come si fa a costruire una giuria su un progetto che è nato dall’ingenuità – forse – ma più che altro dalla mancanza di una deontologia professionale rispettosa e tutelante per gli iscritti e per la città stessa?
Il concorso, mi sento di dire, è totalmente sfuggito di mano al Comune, che si ritrova ora con cinquemila progetti iscritti senza uno straccio di brief (su che cosa avranno lavorato i progettisti che hanno inviato le loro proposte proprio non lo so) che saranno giudicati da una commissione ad ora inesistente e, qualora ci fosse, mi auguro solo che i giurati appartengano ad un altro mondo, dato che servirebbero 83 ore di giuria per garantire ad ogni lavoro un minuto di attenzione, uno soltanto.
A questo punto serve fare una riflessione.
ADCI ha fatto il possibile per mettere una “pezza”, la più grande possibile, a questo ennesimo disastro da concorso, per dimostrare che esiste una metodologia da seguire, che ci sono dei diritti da tutelare ed esistono associazioni di categoria che rappresentano il design della comunicazione e la pubblicità che sono a disposizione senza interessi lucrativi ad offrire consulenza. Ma c’è stato, ancora una volta, l’ennesimo pastiche italiano. Si ripete l’incubo Salerno, Roma, Pisa per citarne alcuni, a conferma che in Italia troppo spesso non si conosce una deontologia professionale, non si conosce il rispetto verso le professioni altrui e si presume troppo spesso che il tema “concorsi” (e mi limito a parlare di questo e basta) sia una cosa facile, che serva ad imbonirsi le masse, magari in procinto di essere elettrìci. Invece tutto si rivela essere solo uno specchio della gestione farraginosa delle iniziative di carattere pubblico. Le intenzioni potevano essere buone, ovvero, cercare di ripetere il successo di casi autorevoli come I Love NY o I Amsterdam, ma la realtà dei fatti è che tutto quello che in comunicazione visiva è diventato memorabile, è sempre stato il prodotto di un lavoro di un professionista autorevole, per un committente che aveva un obiettivo preciso e ambizioso.
Credo inoltre che affidarsi al crowdsourcing non sia di per sé un errore, ma che non sono ancora definite chiare regole che impediscano di svilire l’attività professionale del singolo che svolge un lavoro senza una dovuta retribuzione.
Quindi? Dobbiamo ricercare una colpa a questo punto? Troppo facile da una parte puntare il dito sulla Pubblica Amministrazione e troppo facile dall’altra accusare i professionisti riuniti nelle associazioni di settore di corporativismo.
No, questa è solo miopia, anzi, cecità.
E se fosse invece che il Comune di Firenze non conoscesse l’esistenza di ADCI o di AIAP? Questo è vero, anche perché non conosceva nemmeno la presenza di regole icograda per creare un concorso. Bene, a questo punto mi sento in dovere di dire che questo può essere un caso simbolico per promuovere la nostra esistenza, per fare sapere che ci siamo. Siamo un marchio storico e fortissimo, ma pochi lo conoscono e sapere che l’associazione di categoria che riunisce l’eccellenza della pubblicità italiana non si faccia pubblicità ha del comico.
Io traggo questa conclusione, che vorrei che venisse valutata come uno spunto. Facciamoci sentire dalle Amministrazioni Comunali, dalle Regioni, dalle Università, in effetti ADCI esiste anche per dare consulenza affinché possa esistere una buona comunicazione fatta anche dai non associati. Perché la comunicazione è nient’altro che la realtà dei fatti, e se è buona è solo segno di una sanità sociale.