Postato il Sab 18 Gen 2014 da in Riflessioni

Caro Alfredo Accatino, più impegno e meno parole.

Il commento di Alfredo Accatino al post a proposito di coglioneNo merita una risposta chiara quanto immediata.

Caro Alfredo Accatino,
ho spiegato all’inizio del mio post che le 2 operazioni (la tua petizione e #coglioneNo) non sono paragonibili. Le vedo in uno stesso solco.
Che il solco l’abbia tracciato tu è un pensiero un po’ egocentrico e molto da creativo vecchio stampo, devo proprio dirtelo.
Lasciamoci alle spalle queste trappole dell’Ego. E forse cominceremo a ottenere qualcosa. Magari non per noi, ma per i giovani che iniziano un lavoro che NOI, la nostra generazione, non abbiamo saputo difendere.

Ho scritto e fatto dichiarazioni pubbliche su questi temi dal 2005. Il primo a parlare dei licenziamenti e di come avvenivano fu il mio blog kttb libero sulla parola nel dicembre 2009.
Mio e di Mizio Ratti fu l’esperimento di “radio venerdì 17”, anch’esso volto a creare consapevolezza nei creativi (e non solo) della nostra comunità sul “giro del fumo” nel nostro settore.
Sui diritti calpestati quodianamente.

Un anno dopo arrivò la famigerata cricca di Bad Avenue. Anche i loro post erano in quel solco. Qualcosa si è mosso in questa decade.
Le crisi economiche sono sicuramente un buon enzima per la consapevolezza.
Meraviglioso che il contributo coglioneNo arrivi da tre giovani veri. Mi dà fiducia e voglia di perseverare.
Perché, ti confesso, mi sentivo un po’ stanchino.

Ho fatto qualcosa di più di una una bella lettera e una petizione in questi anni.
Nel 2011 mi sono presentato all’assemblea Adci con un programma che toccava anche questi temi.

Il fatto che l’assemblea mi abbia eletto pressoché all’unanimità testimonia che lo stesso Club non è insensibile a queste tematiche.

Tutto quello che ho cercato di fare come Presidente Adci in questo faticoso triennio è stato nel solco di ridare dignità a noi e al nostro lavoro.
Non devo proprio niente al tuo pensiero. Semmai ci riconosco riflessi altrui. Ma questo conta veramente un cazzo.

Se devo riconoscere una paternità a questo solco, la riconosco a Enzo Baldoni. A lui e soprattutto a lui.
E ti confesso che dopo la sua morte assurda, ho spesso pensato a lui e alle cose che sosteneva.
Dal celebre “sono solo canzonette” che richiamava al “non attaccamento” (Enzo era Zen per tre quarti già nel nome stesso) sino a quell’ultima lettera che ci lasciò in Adci List, poco prima di partire per la sua ultima avventura terrena, il 30 giugno 2004.
L’ho letta pubblicamente un paio di anni fa, ai giovani e a tutti i direttori creativi presenti alla prima edizione de Il Grande Venerdì di Enzo.
La riposto ora. Ma prima lascia che ti ripeta una cosa: hai scritto una bella lettera e fatto una petizione generica che comunque ho approvato. Sono stato tra i primi a firmarla.
Ora applicati di più, per favore. Per lo meno mettici l’impegno e la tenacia sistematiche che ci ho messo io.
Questo solco non è né mio né tuo.
Deve essere comune e molto affollato. O verrà coperto di merda, cosa che nel nostro campo non manca.
In effetti anch’io, come te, ho trovato assurdo che tu abbia scritto un commento del genere.
Abbiamo ben altro da fare.
Saluti
massimo guastini

30 giugno 2004 (09.37)

L’abbiamo rifatto.

Un cliente interessante, internazionale, un bel budget, una campagna da fare in cinque o sei lingue, giapponese compreso. Un prodotto tecnologico, di alto livello.

Invitati in gara sei gruppi creativi: due italiani, due francesi, due statunitensi.

Li avevamo avvisati: noi partecipiamo alle gare solo se è previsto un rimborso spese, possibilmente con un massimo di tre agenzie coinvolte.
E vogliamo due mesi di tempo per lavorare.

Il giovane manager, intelligente, brillante, ci ha provato. Ci ha dato un briefing interessante e ben fatto. Ci ha ingolosito. Ha dato per scontato che accettassimo. Siamo stati elastici sui due mesi di tempo, ventilando la possibilità di una presentazione a fine luglio. Abbiamo ceduto sulle tre agenzie. Ma non sul compenso per partecipare alla gara.

Non ho capito se si sia offeso. Mi pare di no, glielo abbiamo detto con cortesia e fermezza. In ogni caso, abbiamo tenuto con coerenza il nostro punto di vista. Siamo un piccolissimo gruppo creativo, abbiamo il privilegio di non dover pagare sessanta stipendi ogni fine mese.

Quella del rimborso per le gare è una questione di correttezza. Ormai, all’estero, il compenso per la gara fa parte della prassi. Dieci – ventimila euro. Noi ne chiediamo da cinque a dieci. Però quei cinque – dieci li vogliamo, perché, a nostra volta, ai creativi, agli illustratori, ai fotografi, alle case di produzione che lavorano per noi paghiamo un bonus-malus. In tasca non ci resta quasi nulla, ma forse inneschiamo un circuito virtuoso.

Ieri abbiamo perso un cliente (meglio: una possibilità del 16,6666% di prendere un nuovo cliente). Eppure, uscendo dal ristorante dove avevamo avuto una conversazione piacevolissima, che spaziava dalle esplorazioni

subacquee a (indovina un po’?) la guerriglia colombiana e il cartello di Medellin, noi eravamo tranquilli, ragionevolmente certi di aver fatto quello che andava fatto. Il giovane manager internazionale ci è sembrato perplesso, forse un po’ deluso, ma forse anche un po’ intrigato.

A noi sembra giusto fare un punto fermo sulle gare, sennò si ripeteranno all’infinito episodi come quello di Banca Intesa, una dozzina di sigle per fare un pasticciaccio, e uno spreco incredibile di energie, di intelligenze e di creatività.

Che dite? Abbiamo fatto una cazzata?
(Enzo Baldoni)

e.