Postato il Mer 29 Apr 2020 da in #ContinuityInterviste

La creatività è di famiglia: “TEMPO AL TEMPO.”

Autori: Valentina Amenta e Paolo Bartalucci

‘Posso correre?’ Questa è stata la prima e unica domanda che nostra figlia Matilde, 5 anni, ci ha fatto la prima volta che siamo usciti. Dopo che per 9 settimane era stata tranquillamente in casa. A dire la verità eravamo solo scesi in strada per mettere in moto l’auto e controllare che la batteria fosse ancora carica. 

La risposta, non immediata, è stata: – Sì, certo. 

In quel momento è scattata in avanti e fino all’incrocio non si è più fermata. Poi, dopo che si è voltata verso di noi, ha aspettato un cenno per fare tutto daccapo, di corsa. Senza fiato. 

La ‘malattia’, come la chiamano lei e sua sorella Ludovica di 3 anni, non le ha messo paura come ad altri bambini. Ma le ha tolto la libertà. 

Come a sua sorella più piccola, il cui desiderio più grande è spaventosamente molto milanese: uscire per andare a passeggiare a City Life.  

Siamo tutti e quattro, babbo-mamma e figlie, finiti in un planetario esperimento di antropologia culturale che a dire la verità, se mondato dalla tragicità di chi ha perso qualcuno, è grottesco. Grottesco perché ci siamo ricordati improvvisamente e dolorosamente, come quando ci ricordiamo che non abbiamo il latte in frigo, che non siamo eterni.

E dopo tutto le cose inaspettate valgono il doppio.

E ora, mentre aspettiamo la Fase 2, che a dire la verità ci spaventa esattamente come ci spaventava la Fase 1, non riusciamo ad esaltarci troppo per la riapertura delle cartolerie, forse per il fatto che le nostre figlie non sono ancora scolarizzate, o per le gabbiette di plexiglas in spiaggia, perché le nostre estati di solito le passiamo tra le solitarie colline senesi e una spiaggia libera siciliana semideserta.

Nella seconda Fase però cercheremo di esaltarci per quel poco di buono che abbiamo imparato. Dal lock down in poi noi, per esempio, ci siamo ritrovati sposati e con figli, senza nemmeno essercene troppo resi conto, presi come siamo ed eravamo dal lavoro. 

Quindi al netto che nella vita dovremmo tutti imparare, anche prima che questo orrendo evento biologico si manifestasse, a capire cosa ne facciamo di ogni benedetto giorno che Dio o chi per lui ci regala, abbiamo cercato di prendere lentamente fiato – come nei tutorial di yoga che avete tutti almeno una volta fatto nella Fase 1 – e di capire come usare al meglio il nostro tempo.

Il nostro spirito guida in questo giro di condominiale consapevolezza è stato l’albero che vediamo dalla nostra cucina e dalla nostra veranda. 

In questi due mesi, in cui ci siamo sono accorti che tecnologia e globalizzazione non servono a controllare gli eventi, lui in maniera elegante e imponente, si è messo prima a germogliare e poi a fiorire. Pian piano, respirando lentamente. 

L’ippocastano, una pianta enorme di almeno 20 metri, ci ha spinto a modo suo a leggere di nuovo quanti più libri potevamo e a giocare di più con le nostre figlie. Perché se il tempo lui lo usava per vivere e rivivere, non lo dovevamo fare anche noi? E così da quando siamo in questa casa, una siciliana e un toscano, abbiamo per la prima volta osservato bene fuori per guardare meglio dentro di noi. Forse cercavamo l’orizzonte del mare o il movimento delle colline. Sinceramente non lo sappiamo.

Sappiamo solo che non impediremo mai alle nostre figlie di correre, e non le impediremo nemmeno di fermarsi. Perché dovranno imparare come noi che c’è un tempo per correre, uno per fermarsi e uno per respirare, come ci ha insegnato lui. E possibilmente senza mascherina.