Facebook e i giustizieri della notte
di Pasquale Barbella
Questa volta vi scrivo da morto. Da un pezzo ambivo a diventare uno specialista di opere postume, e la subitanea scomparsa mi dà subito una prima occasione di uscire allo scoperto dalle tenebre.
Sono stato assassinato giovedì 20 settembre, verso mezzanotte. A infliggere il colpo fatale non è stata né una Luger né un’ascia bipenne, né un’alabarda né una mazza da golf. Qualcosa di simile a una clava, forse, ma di modello più attuale.
L’arma che mi ha colto di sorpresa, centrandomi in pieno fra gli occhi, è stata una mail sommariamente tornita, comunque non priva di schegge di selce e di osso sporgenti dalla superficie, in modo da garantire l’efficacia della sua funzione. Con l’aggressore, persona nota e apprezzata nel mondo della pubblicità, intrattenevo vaghi rapporti da oltre quarant’anni: rari e superficiali, ma sempre improntati alla massima e reciproca correttezza. Non vi dirò altro di lei o di lui, in parte per congenita passione del thriller, ma soprattutto perché lo svelamento della sua identità non ha nulla a che vedere con le sparse e disordinate considerazioni che mi accingo fare. Da qui in poi mi riferirò al/alla clavista usando la sigla K, in omaggio al signor Kersey – il giustiziere della notte impersonato da Charles Bronson in un vecchio blockbuster.
Copio e incollo il messaggio letale rispettandone la sintassi, l’ortografia, la punteggiatura e l’etilico charme:
Oggetto: ha disattivato il mio giovane facebook account
mi ha rotto vedere tutte le cazzate che scrivono in pubblico e le foto idiote di amici cari. Barbella una delusione. Avevo un alta opinione di lui, oggi sembra un pensionato che non sa che cazzo fare nella vita, ..l’unico ancora carino è Luigi Montaini, infatti è morto da 3 Mesi, Anche Bianca Allevi tiene aperto il suo account da due anni dal suo funerale. Dunque mi assento da vivo Amen.
Il ricevente Barbella, più morto che vivo, si è limitato a due rapide parole di commento:
Molto gentile.
Probabilmente K non intendeva colpirmi in modo frontale, ma alla nuca. Penso che abbia inviato la sua mail a una pletora di destinatari nascosti dimenticandosi di cancellare la vittima dall’elenco. Al mio sopracciglio alzato ha replicato con un sorry molto simile al colpo di grazia. Trascrivo letteralmente:
Sorry Pasquale, così è se guardi a freddo le cose in facebook, sembra il grande fratello di rincoglioniti con una platea di assetati di frasi o foto per sapere cosa fruga nella testa dell’uno o dell’altro per poi votare “I like”.
Se poi si tolgono a vicenda l’amicizia, soffrono anche.
Ti voglio bene e te lo dico in privato.
Appurato che esistono nuovi modi di volersi bene, modi di cui non sospettavo l’esistenza, prendo per buono l’amore di K, sebbene venato da sfumature di necrofilia (i morti sono “carini” non perché lo fossero in vita, ma perché sono passati oltre: così, almeno, mi sembra di evincere dalla sua prosa).
Ora voi, pochi e pazienti lettori, penserete che io stia descrivendo questa modesta esperienza d’amor fraterno per imbastire un’elucubrazione accademica sui social network e sulle eventuali patologie di favorevoli e contrari; o, peggio ancora, che io sia tentato di sfruttare questa piattaforma pubblica al solo scopo di elaborare qualche forma di vendetta personale.
No, no e poi no.
Il colpo ricevuto non mi ha ispirato alcuna riflessione utile su Facebook. Non m’interessa difenderne gli adepti, né criticarne gli avversari: so che ci sono persone perbenissimo su entrambe le sponde, per il semplice motivo che gli esseri umani non possono essere catalogati in base alla loro adesione o al loro rifiuto di Facebook.
Continua invece a sconcertarmi la mutazione idiomatica e forse genetica che, da Sgarbi e Bossi in poi (ma se ne potrebbero citare di nomi famosi!), sta trasformando la vecchia civiltà borghese in un gorgo primordiale. E non è questione di generazioni: K non è un fanciullo di primo pelo, né una pulzella alla prima mestruazione. È, nel nostro entourage, una presenza così storica che più storica non si può; ammirata per indiscussi meriti professionali, ma anche per sublime aplomb e sciccherìa; l’ultima persona, insomma, da cui ti aspetteresti l’apocalisse.
Che cosa ci sta succedendo?
Me lo chiedevo proprio ieri sera, cinque ore prima del bacio di mezzanotte, imbottigliato in un traffico da tregenda, lungo un’anonima periferia industriale dove l’unico tratto di umanità che vi possa mai capitare di scorgere è la presenza di prostitute nigeriane completamente svestite. Alla mia destra, oltre i mesti edifici sorgenti da campi spelacchiati, si alzavano a oscurare la luna cinquanta metri di fumo nero, da un capannone sfiancato dalle fiamme. Sto ancora tossendo, mentre inquirenti e Asl misurano la tossicità delle esalazioni e indagano sull’eventuale presenza di eternit in un deposito già saturo di plastica.
Le cronache – politiche ancor prima che ambientali – ci avvertono ogni giorno che siamo scivolati, a poco a poco, in una Chernobyl estetica e morale senza immediate speranze di bonifica. Un mondo senza giudizio, ma colmo di giudizi e pregiudizi, come se osservare il prossimo dall’alto e condannarne i comportamenti – anche i più innocenti – bastasse a farci sentire migliori. Forse anch’io, senza saperlo, ho incorporato veleni per osmosi; forse anch’io ero, a vent’anni, migliore di come sono diventato.
Che ne è stato, per esempio, del mio ottimismo, della mia naïveté, della mia sconfinata fiducia nel progresso? Dove sono io, dove i miei affini? Mi serve ancora amare Brahms?
A proposito di musica. Sto letteralmente divorando un libro bellissimo, consigliatomi da Till Neuburg: Il resto è rumore, di Alex Ross. Dalle prime pagine apprendo con stupore che Salome, opera di avanguardia di Richard Strauss, ottenne un trionfale successo non solo di critica ma anche di pubblico nel 1906, quando fu rappresentata a Graz e altre città austriache non proprio inclini all’eccentricità e al progressismo. A distanza di oltre un secolo sarebbe naturale aspettarsi, nei confronti della musica di Strauss e dei suoi coevi, le stesse reazioni suscitate dai “classici del passato” – Bach, Mozart, Beethoven, fate voi. La musica del Novecento, persino d’inizio secolo, tende invece a passare, nell’opinione comune, ancora per “contemporanea” e a suscitare la stessa, immutata ostilità riservata alle cose così nuove da farci quasi paura. I nonni o bisnonni di Graz, sommariamente etichettati come tradizionalisti, erano dunque più aperti e più avanti di noi? Procediamo davvero col passo del gambero, come ha scritto Umberto Eco in uno dei suoi saggi più acuminati?
La domanda è ovviamente retorica. I fatti parlano chiaro. Non so altrove, ma da noi è così. Per sbalorditivi che possano essere i balzi della tecnologia e la disponibilità d’informazione, il passo della società sembra andare in costante e inesorabile retromarcia. Lo spread fra ciò che siamo e ciò che potremmo essere si allarga sempre di più. La cosa più memorabile dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, This Must Be the Place, è un aforisma destinato a fama duratura: “Ci sono molti modi di morire: il peggiore è rimanendo vivi.”
Forse anche K era già morto mentre, in mancanza di maglio, brandiva le sue mail.
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