Postato il Ven 3 Feb 2012 da in Riflessioni

A proposito dello stereotipo nella comunicazione

Accolgo volentieri l’ invito di Vincenzo Guggino, Segretario dello IAP (Istituto dell’ Autodisciplina Pubblicitaria) a pubblicare in questo blog un pezzo del Professor Liborio Termine.
Ne approfitto per ricordare quanto riportato dal Manifesto Deontologico ADCI sugli stereotipi:

Una certa dose di stereotipi è necessaria in pubblicità come in ogni forma di comunicazione di massa. Ma l’abuso di stereotipi e cliché relativi a etnie, religioni, classi sociali, ruoli e generi favorisce il consolidamento di pregiudizi e ingessa lo sviluppo sociale, ancorandolo a schemi culturalmente arretrati e quindi dannosi. Dunque occorre usare gli stereotipi con attenzione e consapevolezza, sempre chiedendosi se una soluzione alternativa non sia possibile – e migliore.

Qualche volta accade alle parole quel che accade agli uomini: perdono credito e acquistano pessima fama, vergognosa reputazione. Stereotipo è una di queste. Non solo perché, come il “luogo comune”, cristallizza il pensiero e l’espressione, ma perché rafforza i pregiudizi e li legittima mantenendo in vita quel che, nel campo del costume, la più evoluta coscienza dell’epoca considera superato e persino offensivo.
Da ciò la tentazione e il tentativo di condurre “battaglie” contro lo stereotipo nella convinzione che, eliminandolo, si riesca a cancellare, o almeno a mettere in crisi, quella “forma mentis”, quel sentimento, quel modo d’essere ch’esso interpreta e a cui dà vita. Ma è, questa, convinzione tanto generosa quanto sbagliata, dal momento che lo stereotipo non è la causa dei fenomeni che rappresenta, bensì ne è il prodotto, anzi il mezzo attraverso cui quei fenomeni si manifestano.
Come dire che lo stereotipo, nella sua formazione, attinge sempre a una precisa, culturalmente identificabile, base sociale, e che agisce solo sino a quando questa è ancora attiva e operante nella società.
In questo senso, impiegato nella comunicazione e, in particolare, nella comunicazione pubblicitaria –, lo stereotipo appare fortemente selettivo del destinatario a cui si rivolge, nel cui campo solamente può esercitare la sua funzione, perché solo qui ha certezza di efficacia. Fuori del territorio che traccia la sua base sociale di riferimento, lo stereotipo incontra il mondo e perde la sua forza.
Come la merce, infatti, anche la pubblicità seleziona il pubblico al quale rivolgersi e nei cui riguardi lo stereotipo funziona in quanto abbreviazione (discorsiva e rappresentativa), ammiccamento, rassicurazione. Lo shock che la pubblicità deve produrre per fermare l’attenzione non può, come è noto, tracimare e colpire le certezze che costituiscono il “mondo” del consumatore.
Ci è forse difficile calcolare con esattezza il peso che queste varie articolazioni hanno nella società e nella cultura di massa, dal momento che si tende a considerare la “massa” più come una “unità” e meno come una coesistenza di aggregati tra loro molto diversi, i quali, nel trovarsi insieme, producono resistenze che li rendono scarsamente permeabili tra loro.
Certo, la scarsa permeabilità non è immobilità: le interferenze generano sempre istanze di riconfigurazione. Ma i processi sono lenti e a volte lunghi. Quanto tempo è stato necessario perché uno stereotipo come quello impiegato da Simenon in tutti i suoi Maigret – stereotipo che rappresenta sempre la donna-moglie investita da interessi casalinghi, fissata nello sforzo e nella gloria di questo suo ruolo, rispettosa e socialmente separata dalle attività dell’uomo-marito – (realtà in piccola parte ancora esistente) diventasse socialmente residuale?
Ma dal momento che ancora un’eco o una patetica nostalgia di quella realtà per qualcuno resiste, sia pure ai margini di un diverso costume, di un diverso e paritario gioco dei ruoli divenuto egemone, perché stupirci se la pubblicità ne coglie l’essenza profonda (vorremmo dire “lontana”) e l’espone con l’immagine della donna che tiene “legato” a sé il marito con una pietanza surgelata? Chi o che cosa “minaccia” quella signora che vorrebbe far rivivere, almeno per sé e per il marito, il tempo della nonna? Ed è davvero difficile pensare che proprio a questo inclina se compra quel prodotto così rappresentato?
Il problema, come si vede, non è difendere o condannare lo stereotipo. E non è nemmeno quello di operare perché gli stereotipi escano fuori, a colpi di editti, dalla pubblicità. E tuttavia un problema c’è e riguarda la disimmetria che esiste tra il sentire la contemporaneità nel suo insieme sociale (ciò che una volta si diceva la “filosofia dell’epoca”) e la frantumazione dei livelli culturali che, dentro la contemporaneità, opera scarti in qualche modo devastanti.
Detto diversamente e con un esempio: come conciliare la bellezza e la proprietà dell’immagine femminile prestata all’esaltazione della seduzione e rivolta alle donne nella pubblicità della biancheria intima, con la stessa immagine consegnata alla volgarità di una rozza fascinazione che si riversa su una moto, una caffettiera, un divano?
Non con la cancellazione del secondo stereotipo, perché non si “cancella” ciò che si è depositato nelle strutture profonde dell’immaginario, ma si può solo rimuovere – e la rimozione, ci dice la psicoanalisi, si apparenta alla malattia dell’anima e genera disagio.
Così il problema torna a porsi e la soluzione, non tecnica ma culturale, passa nelle mani degli autori della comunicazione pubblicitaria perché è affidata alla loro capacità di entrare dentro le dinamiche sociali per cogliere e liberare dentro lo stereotipo consolidato le tendenze che lasciano presagire il cambiamento e la sua direzione. Cosa che la grande arte sa praticare diremmo quasi per statuto; e cosa anche che mostra quanto difficile e complesso sia il rapporto tra l’arte e l’arte della pubblicità.
(di Liborio Termine Ordinario di Storia e Critica del Cinema, Università degli Studi di Torino e Membro del Giuri)

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