Letture creative: “ALL U LOVE IS NEED”
Il nostro socio Arnaldo Funaro ci racconta il suo libro e ci porta attraverso le sue considerazioni sul mondo della comunicazione.
“Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.”
Ho scritto queste tredici parole in calce alla nota dell’autore – che poi sono io – e che introduce il mio romanzo: ALL U LOVE IS NEED, Guerini Editore.
Fine della pubblicità, promesso.
Ma visto che posso scriverci su un pezzo, ho pensato di partire proprio da queste tredici parole perché –cosa che un pubblicitario non dovrebbe fare – ho detto una bugia.
ALL U LOVE IS NEED è ambientato nel nostro mondo, quello della creatività.
Racconta di un’agenzia milanese che dà anche il titolo al libro e che deve lanciare un brand rivoluzionario che promette di liberare la vita delle persone, semplicemente facendole lavorare in un momento in cui andiamo veramente tutti in pausa. No, non l’interna col cliente: il sonno.
Ora, al di là della trama, il mondo che racconto è quello che ci appartiene, nel bene come nel male.
Se doveste decidere di leggerlo, dentro ci trovereste situazioni assurde per chi non fa il nostro mestiere, ma assolutamente credibili per noi, dalle dinamiche umane ai brainstorming, dalla competizione sana a quella malsana.
“Trascino Stefano e i suoi fumetti all’Unlockdown ai Navigli, dove si riversano tutti i creativi quando escono qualche minuto dalla sindrome di Stoccolma per entrare in quella di Milano, coi suoi locali dove si progetta la rivoluzione intorno a quattro pizzette mosce che chiamiamo aperitivo.
I creativi, appunto, soggetti schizofrenici che si giurano comunisti, pacifisti e rivoluzionari; che predicano la sostenibilità e vanno in giro con borse riciclate di qualche marca ultra costosa che ti promette di farti sentire figo senza rovinare il pianeta. Personaggi capaci di fare nottate per il post sulla difesa del rarissimo panda dall’uccello moscio e in via d’estinzione, evidentemente perché non gli si drizza e non tromba.”
Questo libro dice tante cose del mondo della comunicazione e, facendolo attraverso la distopia, ne mostra soprattutto gli aspetti negativi, quindi parziali.
La protagonista
La protagonista è una donna nella quale mi rispecchio per tantissimi aspetti, meno per quelli in cui nasce un j’accuse al mondo di chi comunica e agli attori che lo frequentano.
Vincere premi, per esempio, non è solo un modo per arricchire il proprio ego, ma per alzare il livello culturale del pubblico e di conseguenza la relazione che ha col mercato e i consumi.
Perché la pubblicità ha lo stesso valore di una strada asfaltata: la sua qualità è un termometro del livello culturale di una comunità.
E i brand, ci crediate o meno, non nascono per sfruttare o vendere ciecamente, costi quel che costi, ma per cambiare in meglio la società. Spesso lo dimenticano pure loro e di conseguenza lo dimenticano anche le persone che oggi non possiamo davvero più chiamare consumatori.
I brand occupano quel posto in cui la società, intesa come istituzioni o legislatore, non arriva – se non in ritardo – andando a offrire servizi per la vita delle persone. Servizi che non vengono sviluppati a tavolino per creare un problema, ma che nascono dalla volontà di offrire una soluzione a problemi reali.
Però, questo libro dice anche tante cose della vita in senso più largo
“Regola numero uno: se vai a lavorare a Milano, devi riuscire a vivere a Milano. Sembra banale, ma non lo è. L’affitto in città è più caro, ma ti libera dalla schiavitù dell’auto.
Regola numero due: se vai a vivere a Milano, non pensare di poterlo fare da solo, perché un lavoro non basta, a meno che di notte non rapini tabaccherie.
Io sono fortunata perché vivo a Porta Romana e ai Navigli (e in agenzia visto che sta lì) ci arrivo semplicemente con un tram.
Ma spesso me la faccio anche a piedi; alla fine una mezz’ora piacevole, se il tempo regge.
Vivo con Laura, la mia ragazza (per mia madre) coinquilina (per mio padre e tutti i parenti) in un bilocale con terrazzino.
Veniamo entrambe da Catania, abbiamo fatto elementari, medie e superiori insieme. Poi ci siamo separate per un po’ e ci siamo incontrate di nuovo a Milano, per sbaglio. Io uscivo da un master dove pagavo per diventare stagista seriale, mentre lei, avvocato, aveva trovato lavoro in uno studio legale in centro.
Non credo al colpo di fulmine, ma quella volta, non so perché, ci guardavamo con occhi diversi e disinibiti. La vedevo frugare con lo sguardo sotto la mia maglietta e nel giro di qualche istante ho iniziato a fare lo stesso. Al tempo vivevamo in appartamenti molto più grandi, da dividere con almeno quattro o cinque persone. Avevamo la stessa intimità di un cane che piscia in strada.”
Oppure:
“Io vado per i trenta. Il mio orologio biologico suona la sveglia una volta al giorno per ricordarmi che la possibilità di restare incinta e avere un figlio si dimezza per ogni anno che passa.
Ma poi questo figlio con chi lo dovrei fare?
Amo Laura e ha tante qualità tranne l’uccello.
Adottare? Essere omosessuali in Italia ti rende paria.
Paghi le tasse, lavori, spendi, ma guai a pensare di mettere su una famiglia perché poi i figli che adotti cresceranno inevitabilmente froci. La famiglia tradizionale è un’altra cosa: lì l’uomo porta i pantaloni, la donna fa due lavori, quello stipendiato (e comunque meno di un uomo) e quello di casalinga. Lui, se mette su una lavastoviglie, chiede il Nobel per la pace domestica.
Al massimo ci facciamo un bel Gay Pride su qualche carro colorato con i culi di fuori e balli sinuosi manco fossimo su un set di Özpetek.”
O ancora:
“Sai dirmi quante persone soffrono di burnout in Italia?”
“Secondo gli ultimi dati, non meno del 17 % dei lavoratori italiani è afflitto da burnout. Il 44 % sente comunque di essere al limite delle proprie capacità di stress sul lavoro. Le categorie più colpite sono medici e insegnanti. Da un punto di vista demografico, i baby boomers sono al 40,3%, seguiti da generazione X, 30,4%, e dai millennials 25,9%. A oggi la generazione Z sembra ancora non aver incontrato il problema.”
“Ti credo. Non fanno un cazzo.”
In realtà, la generazione Z ha capito tutto e a noi proprio non va giù. Non è vero che non hanno voglia di lavorare; semplicemente non vogliono sottostare alle promesse mancate del mondo del lavoro come lo conosciamo noi: quello in cui abbiamo appiattito l’idea di sacrificio come opportunità di crescita su quella di sacrificio come abuso del tempo e delle energie delle persone.
Hanno così ragione che milioni di lavoratori delle vecchie generazioni stanno abbandonando il proprio posto, con un salto nel vuoto che evidentemente spaventa meno di uno stipendio guadagnato con lacrime e sangue.”
Ma allora, chi siamo noi? Noi creativi intendo.
Io vengo da un tempo diverso, dove si entrava in stage per poche centinaia di euro, generalmente in nero o con ritenuta d’acconto. Chiaramente era un modello sbagliato e nel corso del tempo il legislatore e le agenzie hanno cambiato queste storture.
Ma era anche un tempo in cui entravi in agenzia senza saper fare davvero qualcosa e dove la direzione creativa prendeva una quota parte del suo tempo e la dedicava a te, per farti uscire dal guscio e diventare un creativo o una creativa ver. Uno di quelli che mette in mezzi al servizio di un’idea, non il contrario.
Avevo fatto un master in scrittura pubblicitaria e fu solo il principio della mia progressiva consapevolezza di essere poco capace, ma non per questo inadeguato. Il mondo della creatività mi aveva accolto con tutti i miei deficit, pronto a farmi recuperare quel gap che mi separava dal sogno di essere un vero copywriter.
La sera prima di entrare in agenzia, mandai un’email al mio mentore che mi aveva seguito nel percorso alla ricerca di uno stage. Oggetto: È finita, si comincia.
Non è stato semplice.
Avevo 29 anni suonati e nessuno era disposto ad avere un vecchio come stagista. Quindi, dovetti sfondare la porta dei direttori creativi e rovesciare la convenzione “troppo grande per uno stage” attraverso un video brutto, ma evidentemente efficace: https://www.youtube.com/watch?v=Z2UILb9zP0c&ab_channel=arnaldofunaro
E oggi?
Partirei dalla parola “inadeguato”, perché è così che il mercato ti fa sentire.
Entrare in agenzia è diventata una sfida di un altro livello.
Devi arrivare con una serie di competenze che quelli della mia generazione neanche immaginavano.
Devi avere le idee chiare in un mercato dove le professioni si sono moltiplicate e, in molti casi, non hanno ancora trovato un perimetro chiaro; in un vasto mondo che fa di tutto per confonderti.
Devi avere i soldi per poterti formare, sopravvivere in città sempre più costose, per clienti che si fidano molto più di se stessi che dei propri fornitori, consulenti o come diavolo vogliamo chiamarci.
C’è stato un appiattimento verso il basso, dove i budget sono precipitati e, contestualmente, le agenzie hanno perso quel ruolo di faro della comunicazione, spesso perché sottovalutato (lo sa fare pure mio cugino) o perché, a suon di dumping nella gara feroce per la conquista dei budget, si sono piegate a fatturati che non ti fanno pagare nemmeno le bollette, figuriamoci i dipendenti.
È iniziata così una corsa al risparmio, a liberarsi delle vecchie leve (le uniche che potevano trasmettere il bagaglio di conoscenze alle nuove), al punto che ci sono interi reparti dove non esistono più senior, ma eserciti di junior che vagano come trottole tra un’agenzia e l’altra senza imparare nulla, se non a odiare il lavoro, il sistema, noi.
I nuovi canali, la tecnologia, la democratizzazione dei mezzi di produzione hanno generato la grande bugia secondo la quale tre anni di master fanno di studenti e studentesse professionisti pronti all’uso, finendo per essere solo pronti all’abuso.
Ci credono le agenzie e, cosa più grave, ci credono le giovani leve che non sono più disposte a scalare per tappe e accettare la sfida che li aspetta: quella di agonisti.
Proprio così, siete (siamo, dai) agonisti che devono lavorare e allenarsi con disciplina per alzare l’asticella e raggiungere traguardi che un impiegato qualsiasi non ambisce ad avere.
Non significa farlo con orari impossibili o disagi emotivi generati da capi che ti dicono: “Ai miei tempi dormivo in agenzia”. Piuttosto, si deve essere consapevoli che in questo mondo, come altri in cui il talento da solo non basta, è la voglia di batterci per essere domani più bravi di oggi a fare la differenza.
Ma non è tutto nero. Anzi.
Perché le agenzie sono fatte di persone e non è una frase retorica.
E nella vita è importante incontrare quelle che ti insegnano qualcosa, che ti aiutano, ti sostengono sul lavoro come nella vita.
Le agenzie sono strane galassie in un universo che si sta battendo per non implodere.
E devo dire che si batte bene.
Pensate semplicemente a come è cambiato l’Art Directors Club italiano.
Da organizzazione elitaria e chiusa (i tempi erano quelli e va bene così) dove la crema della pubblicità parlava a se stessa e dove per essere iscritto dovevi aver vinto qualcosa, a organo vivo e pulsante della creatività italiana e spazio dove vecchie e nuove generazioni si incontrano e scontrano.
Proprio così.
Inutile nascondersi.
L’incontro generazionale è anche uno scontro che genera domande giuste e sbagliate e risposte altrettanto giuste e sbagliate.
Ma senza questo processo, non ci sarebbe alcuna evoluzione o miglioramento.
E devo dirvi una cosa con la quale dovrete fare i conti: saranno più i fallimenti dei successi anche quando i numeri sembreranno dirvi il contrario perché, come ogni agonista, prima di saltare la misura (ogni volta) più alta, dovrete cadere decine di volte e rialzarvi.
Eppure, ve lo garantisco, il bello è tutto lì: il sapore della vittoria, a quel punto, sarà di una dolcezza indescrivibile.
Non so se leggerete mai ALL U LOVE IS NEED
Ma spero proprio che abbiate voglia di scorrere le headline che troverete tra poche righe.
Sono i pensieri che ho raccolto in vent’anni di Arnaldo stagista, junior, senior, creative director, client service director e fondatore di un’agenzia con altri pazzi innamorati di questo mestiere.
Spero possiate trovarle utili per la vostra carriera, che in fondo è un romanzo migliore di quello che ho scritto io.
NON CAPIRE LA CAUSA DI UN ERRORE È LA PRIMA CAUSA DI UN ERRORE.
SE TUTTO È URGENTE, NIENTE È IMPORTANTE.
L’UNICA DOMANDA SBAGLIATA È QUELLA CHE NON FAI.
C’È SOLO UN MODO PER CRESCERE IN AGENZIA: FAR CRESCERE L’AGENZIA.
C’È UNA LINEA SOTTILE TRA ECCELLENZA E SACRIFICIO. SI CHIAMA TRAGUARDO.
IL TUO PRIMO CLIENTE È IL TUO DIRETTORE CREATIVO.
UNA LAUREA NON FA DI TE UN PROFESSIONISTA. FA DI TE UN LAUREATO.
UN LAVORO STRAORDINARIO NASCE SEMPRE DA UN LAVORO ORDINARIO.
ANCHE IL LAVORO HA BISOGNO DI PRENDERSI UNA VACANZA DA NOI.
SE NON AMI IL TUO LAVORO NON CERCARTI UN HOBBY. CERCATI UN ALTRO LAVORO.
RIUSCIRE NON È UN OBBLIGO. MA NEMMENO ARRENDERSI.
FAI CIÒ CHE DEVI PER FARE CIÒ CHE VUOI.
CHI AMA IL PROPRIO LAVORO È AMATO DAL PROPRIO LAVORO.
SAPERNE ABBASTANZA NON È ABBASTANZA.
SE NON CREDI IN CIÒ CHE FAI, NESSUN ALTRO LO FARÀ.
LA PERSEVERANZA È L’UNICO TALENTO IN GRADO DI PROVARE CHE HAI TALENTO.
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