Postato il Mar 8 Set 2020 da in EqualLa vita del Club

EQUAL: L’arte di essere donna e le convenzioni infrante

In occasione del grande dibattito suscitato dai media sul caso della modella Armine Harutyunyan, ADCI ha scelto di confrontarsi con alcune personalità trasversali a diversi mondi per approfondire il tema dei codici estetici nelle rappresentazioni visive.

Il dibattito portato avanti all’interno del progetto Equal e Cast the inclusion, vede come secondo intervento quello di Cristiana Campanini: giornalista e storica dell’arte, scrive per Abitare, Arte e La Repubblica. È inoltre fondatore di Art Around – The Italian Gallery Guide, primo archivio delle gallerie in Italia e Professore associato allo Iulm.

Qui ci consegna il suo punto di vista sulla questione, esplorando le diverse Armine nella storia dell’ arte, non convenzionali e capaci di generare reazioni tanto violente da renderle rivoluzionarie. 

Armine come la Gioconda. È un paradosso. 

La modella Armine Harutyunyan come Frida Kahlo. Un altro paradosso. 

Non in senso di simbolo universale di ambiguità e di fascino, ma come donna il cui volto sfugge a canoni di bellezza tradizionali. Ciò che accade ad alcune celebri raffigurazioni femminili della storia dell’arte. La stessa Fornarina di Raffaello, in fondo, non si può dire rispecchiasse canoni assoluti. 

L’ideale di bellezza femminile cambia di stato, evapora e sfugge, nel corso della storia dell’arte. Esiste addirittura un genere proprio allo sgraziato, come ricorda Umberto Eco nella “Storia della bruttezza”, evocando infinite casistiche tra arte e letteratura, soprattutto al femminile. 

«Tra Medioevo e periodo barocco prospera il tema della vituperatio nei confronti della donna, la cui bruttezza manifesta la interiore malizia e il nefasto potere di seduzione». Ciò avviene in tutte le sue declinazioni, dalle imperfezioni più o meno evidenti fino alla vecchiaia. Lo stesso Boccaccio toccava apici di misoginia nel Corbaccio (1363-1366), descrivendo “Che cosa le femmine sono”: «La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abbominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionarne». 

Ciò che resta, quindi, della bufera d’insulti che ha travolto sui social la giovane modella armena di Gucci, non è tanto una disquisizione sul suo fascino presunto o costruito, sfrontato o naturale che sia, oppure una definizione di canone di bellezza femminile a partire dalla storia dell’arte, ma una meditazione su come nella donna e nella sua immagine possano ancora celarsi nervi scoperti così acuti e pungenti per la società. Il potere della sua diversità ha la forza di turbare e di offendere, di scatenare commenti inferociti, seppur inconsistenti. Questo elemento è ciò che rende il suo profilo così vicino all’arte più rivoluzionaria e che squarcia le convenzioni.

Il suo naso adunco, le sopracciglia folte, lo sguardo oscuro, vanno di pari passo con l’arte che ha saputo indignare, scatenando ire iconoclaste in ogni periodo storico. L’elenco è lunghissimo, dalle modelle popolari raffigurate nei soggetti sacri e profani, perfino blasfemi, di Caravaggio e arriva fino a oggi. Fino alla morte congelata negli scatti di Andres Serrano. Fino all’infanzia sfregiata nei Bambini impiccati di Cattelan. Fino alla maternità monumentale di Alison Lapper per Marc Quinn. 

Fino al corpo offeso dagli abusi di potere nelle performance Regina José Galindo.

Insomma Armine, come Monnalisa o come nuova Frida Kahlo.

Il paradosso resta, utile a evocare le molte battaglie condotte dalla storia dell’arte più rivoluzionaria verso nuovi spiragli di libertà.

Al femminile, ma non solo.