Le ragioni dell’emozione
La scienza creativa applicata secondo Arnaldo Funaro
Il titolo di questo articolo altro non è che una bellissima headline scritta da Fausto Nieddu, copywriter e (anche mio) direttore creativo, per una campagna dedicata a Toyota Auris. Parliamo, se non ricordo male, del 2009. Ma qualcuno magari potrà correggermi.
Il film, comunque, lo trovate qui: https://www.youtube.com/watch?v=MDsLjm6pIMg
Mi è tornata in mente a più riprese nel corso della mia carriera, soprattutto quando diventavo sempre più consapevole del fatto che la creatività, nel mondo della comunicazione, non è qualcosa che nasce da un’illuminazione improvvisa, ma dal metodo.
La creatività è un processo scientifico senza il quale si possono avere tante idee inutili (belle o brutte a quel punto non conta più) o alcune fortunosamente utili e centrate.
Il punto è che senza metodo scientifico, si finisce per passare giornate in una palude di spunti e provocazioni che possono servire ad attirare l’attenzione, ma senza portare alcun valore aggiunto verso un brand o un prodotto.
È una questione che troppo spesso, soprattutto tra i giovani creativi, non viene affrontata in modo altrettanto scientifico, senza dar loro, quindi, metodo, disciplina, strumenti e conoscenze per lavorare in modo strutturato e mettersi così nelle condizioni di esprimere quel famoso e tanto agognato salto creativo che trasforma numeri, informazioni, dati e tutte le reason why, in una promessa e in un insight: che qualcosa di tutto sommato banale in straordinario.
La comunicazione deve emozionare.
Può divertire, commuovere, indignare, ispirare.
Ma non potrà mai farlo se a monte di questo suggestivo fiume in piena non c’è una sorgente chiara: il brief.
Ma da dove arriva questo brief?
Se oggi per alcuni mestieri della comunicazione non ci sono ancora perimetri chiari, per quelli che fanno da pilastri al nostro mondo lo sono fin troppo, tanto che a un certo punto il brief è diventato appannaggio degli account e la sua soluzione dei creativi.
Così, ci siamo trovati con account che non capendo nulla o quasi del processo creativo scrivono brief inconsistenti. E creativi che non sapendo nulla di come si scrive un brief fanno creatività altrettanto inconsistenti.
Non è una regola generale, perché il nostro panorama professionale ci dimostra ogni anno che ci sono agenzie, quindi persone, capaci di dare a tutti le competenze che servono per comprendere il lavoro degli altri. Fare la propria parte, poi, diventa un tema di specializzazione.
Ma cosa dovrebbero fare le giovani leve di fronte a tutto questo?
Come si realizza questo passaggio dalla creatività nata quasi per caso a quella che sai di poter trovare senza aspettare che una mela ti cada in testa?
Nel mio piccolo sento di poter dire che la cosa migliore da fare è imparare il lavoro che normalmente gli altri fanno per te: darsi un brief.
Non è facile, me ne rendo conto.
Nulla lo è quando si inizia, ma decidere di non imparare perché “non è il mio mestiere” è un peccato originale che si paga per anni, finché non si decide di prendere la questione per il verso giusto.
Come è fatto un brief?
Queste le informazioni basilari.
BACKGROUND
Tutto quello che c’è da sapere, dalla marca al contesto in cui opera, a ciò che ha già fatto o non ha fatto.
Qui serve una sintesi ben scritta, chiara e puntuale. Il resto delle informazioni sarà rimandato a link e allegati di ogni genere e forma, purché anch’essi ben organizzati, chiari e rielaborati quando serve in italiano corrente. Evitiamo di parlare del brand o del prodotto come una mamma parlerebbe del proprio figlio serial killer (“Un così bravo ragazzo!) e diciamo le cose come stanno davvero.
COMPETITOR
Sapere cosa fanno i concorrenti ci permette di:
1 – non presentare cose già viste;
2 – innovare per principio, dovendo cercare idee ed esecuzioni fresche;
3 – cavalcare campagne della concorrenza e farle diventare un nostro punto di forza.
TARGET
Spesso i clienti hanno un solo target: 0-90 ambosessi, senza distinzioni.
Noi dobbiamo farle e serie. E dobbiamo farle oltre i cliché del pubblicitese, per esempio: maschio sui 30 con figli che ama viaggiare e guida solo auto di grossa cilindrata. In breve Justine Timberlake e un paio di amici suoi.
Dal target dipende tutto: dal tono di voce agli insight, fino ai mezzi.
PROBLEMA
Perché un problema diventa un’opportunità? Perché senza problemi non ci sono soluzioni (idee e strategie) da trovare.
Ogni brief ha un suo problema e sarà il cliente stesso a tirarlo fuori: dalla concorrenza che vende di più, ai consumatori che non ricordano la marca, ai social che non fanno numeri.
L’agenzia che non trasforma i problemi in opportunità diventa essa stessa un problema per il cliente e un’opportunità per un’altra agenzia.
OBIETTIVO/OPPORTUNITÀ
Facile a dirsi, ma non a farsi perché gli obiettivi di marketing rappresentano dati misurabili: pezzi venduti, lead ottenuti e via dicendo. E credetemi: quando un cliente non vede i numeri che si aspetta, comincia a darli. Accrescere la reputazione, rinfrescare il posizionamento del brand, fare notizia con relativo earned media, invece, sono voci che vanno ben oltre il misurabile, perché di valore smisurato.
PROMESSA
Dash lava più bianco!
Ok, così è già slogan, ma in fondo si tratta di questo: cosa fa un brand/prodotto per il consumatore?
La promessa si risolve in una proposition: la sola cosa da dire. Un tempo poteva anche essere distintiva rispetto ai concorrenti (unique selling proposition).
Ora i prodotti sono tanto simili che trovare USP notevoli è sempre più difficile.
REASON WHY
Dicevamo: Dash lava più bianco!
E perché? Beh, perché dentro ha questo e quest’altro. Ogni promessa deve essere seguita da una serie di “prove” che ne garantiscano la veridicità.
INSIGHT
Cos’è un insight?
La verità spesso nascosta sotto la superficie di un luogo comune che ti fa dire: “Sì! Anche io la penso così! Tu si che mi capisci!”. È la mano invisibile che apre il portafoglio al posto tuo. Dove si trova? Nella pancia più che nella testa. Nella pancia di chi? Del target ovviamente. Perché compro un’auto sportiva? Per la scientifica soluzione del baricentro ribassato o perché penso: “Mamma mia quanto sono fico quando mi ci vedo (e mi ci vedono) sopra”?
GOLDEN CIRCE DI SIMON SINEK
WHAT: Quello che un brand fa.
HOW: Come un brand fa quello che fa.
WHAT: Perché un brand fa quello che fa.
WHAT e HOW somiglieranno molto a promessa e reason why, ma stavolta rivolti verso il brand, non verso i consumatori. Ma è il WHY a darci la visione del brand, senza la quale non possiamo iniziare; trovarlo è difficile e i brand per primi tendono a dimenticarlo nel tempo.
CONSTRAINT
Non c’è cosa più pericolosa che avere libertà totale. Dobbiamo pretendere i vincoli per un output creativo più preciso e per non lavorare a vuoto. Lo stesso vale per il trattamento che proponiamo. Troviamo esempi ovunque e condividiamoli coi clienti. E non cadiamo nella trappola del mi piace/non mi piace. Lavoriamo sempre sul funziona/non funziona. Se un cliente dice “non mi piace” sarà un problema suo. Se noi lo assecondiamo, sarò un problema del brand.
TONO DI VOCE
Il tono di voce è vitale per capire come approcciare la creatività. Anche qui, non limitiamoci a dire istituzionale, fresco, giovane con la pronuncia ggggiovane tanto per dirlo.
MEDIA/LUOGO/MOMENTO
Che media usiamo? Convenzionale? Digitale? Dinamico? Lo inventiamo?
E dove sarà la nostra campagna? A Centocelle a New York o in tutto il mondo? E a che ora?
Basta questo?
Ovviamente no.
Ma c’è un signore che ha scritto il libro della vita per ogni creativo o creativa di questo pianeta.
Si chiama Pete Barry e ha pubblicato il più che benedetto “The advertising concept book”, un volume che ricostruisce i brief di alcune campagne famose per mostrare e dimostrare ciò che Fausto Nieddu ha scritto per Toyota: le ragioni dell’emozione.
Ecco, se volete iniziare da qualche parte, iniziate dalla fine. Da qui: http://petebarry.com/
– Arnaldo Funaro