Salgado, lo sguardo dei dimenticati.
Autore: Riccardo Fregoso


Il 23 maggio è scomparso Sebastião Salgado. Nato nel 1944 nello stato brasiliano di Minas Gerais, in una terra segnata dalla bellezza naturale e dallo sfruttamento minerario, ha portato fin dall’inizio nella sua fotografia il segno delle sue origini: l’incontro tra natura e sopraffazione.
Economista di formazione, è solo negli anni Settanta che si dedica alla fotografia, entrando in Magnum nel 1975. Lavora con Médecins Sans Frontières e nel 1994 fonda l’agenzia indipendente Amazonas Images. La sua fotografia in bianco e nero, rigorosa e intensa, ha raccontato per decenni le grandi crisi del mondo: carestie, migrazioni, guerre.


La prima volta che vidi una sua mostra fu a Parigi, nel 2005, alla Biblioteca Nazionale. Avevo poco più di vent’anni. Le sue immagini documentavano le miniere di carbone in Bihar e il percorso dei rifugiati in Africa. Salgado aveva alle spalle già trent’anni di carriera, eppure appariva sorprendentemente attuale.
Parlava anche a noi, giovani fotografi in formazione, in una città attraversata in quei giorni dalla rivolta delle banlieues. La rabbia dei dimenticati che lui sapeva restituire in immagini potenti sembrava risuonare con quella che si agitava fuori dai musei e dalle università.


Scattava con una Leica, per restare leggero, ma anche con una Pentax 645, per stampare in grande formato, per dare corpo, e voce, alla coralità degli sfruttati. Il suo bianco e nero profondo trasmetteva alle scene una forza epica, quasi sacrale.
Proprio questa tensione verso il sublime ha però sollevato anche critiche. Nei primi anni Duemila, intellettuali come Susan Sontag hanno messo in discussione l’impatto etico di un’immagine “troppo bella”. In Davanti al dolore degli altri, Sontag si chiede se l’eccesso di forma non finisca per anestetizzare il contenuto, trasformando la sofferenza in spettacolo. È un dubbio che accompagna tanta fotografia documentaria. E nel caso di Salgado, resta aperto: tra lirismo e testimonianza, la sua opera si muove su un crinale sottile e, forse, proprio per questo necessario.
Nel 2014, Il sale della terra – un classico, da rivedere assolutamente – diretto da Wim Wenders, traccia un ritratto profondo del fotografo: la sua infanzia, i suoi viaggi, le sue crisi. Ma anche la sua svolta. Dopo anni passati a fotografare l’umanità ferita, Salgado torna alla sua terra e si dedica alla ricostruzione. Con la moglie Lélia fonda l’Instituto Terra e pianta oltre 4 milioni di alberi su un terreno esausto. È un gesto concreto, ma anche simbolico: dalla denuncia alla cura, dall’osservazione all’azione.

Oggi che la sua voce si è spenta, resta un lascito complesso. Le sue immagini, per alcuni troppo composte, troppo belle; per altri, necessarie. Di certo, il tentativo costante di guardare il mondo con pietas, e restituirlo con dignità.
Un’opera che ha saputo attraversare il dolore senza voltarsi altrove.
Riccardo Fregoso | Chair Creative EMEA, Chief Creative Officer Italy Dentsu Creative I Film Director, Photographer I Cannes Lions Speaker I D&AD Juror 2025
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