Perché non possiamo essere solo un premio e solo un Annual.
Proponiamo grandi esempi da imitare, piuttosto che vani sistemi da seguire.
(Jean-Jacques Rousseau)
Perché l’essere stati solo o essenzialmente questo, per quasi 27 anni, non ci ha minimante avvicinati all’obiettivo primario indicato dal nostro statuto:
migliorare gli standard della creatività nel campo della comunicazione e delle discipline ad essa collegate. Promuovere la consapevolezza dell’importanza di questi standard all’interno della comunità aziendale, istituzionale e del pubblico in genere, in Italia e all’estero.
A guardare i fatti siamo molto più lontani dalla realizzazione del nostro obiettivo oggi che nel 1985.
Il livello medio della comunicazione si è drammaticamente abbassato (e non è una questione di soldi).
Non possiamo nemmeno vantare il merito di essere stati i primi a denunciare quello che stava succedendo. Leggetevi Financial Times su pubblicità italiana, pubblicato nel luglio 2007. Ai tempi l’avevo ripreso nel mio blog personale, che non era certo una voce ufficiale. Negli ultimi cinque anni sono arrivati poi “Videocracy” e “Il corpo delle donne“. Quest’ultimo promosso e diffuso grazie agli sforzi di un ex “committente”, Lorella Zanardo.
E mentre la parte più acculturata e consapevole dell’opinione pubblica iniziava a puntare il dito sulle responsabilità sociali nostre e del nostro lavoro e ad accusarci di essere tutti e indifferenziatamente degli inquinatori cognitivi, noi abbiamo continuato a sentirci e ad autoproclamarci i migliori creativi d’Italia. Senza fare nulla di utile e concreto per motivare questa affermazione.
Abbiamo confuso dei mezzi (premio e annual) con il fine.
Lo ripeto ancora una volta: la funzione degli Adci Awards deve essere quella di identificare dei buoni esempi di comunicazione, socialmente sostenibile. Lo scopo dell’Annual è promuovere questi esempi anche al di fuori della nostra comunità.
Perché
l’Italia ha più bisogno di emancipazione che mai, e ha il dovere e il diritto di ritrovare – anche nella pop culture, advertising compresa – quella dignità culturale e civile che fa parte della sua storia e della sua migliore reputazione.
Gli Adci Award devono indicare una direzione più che rappresentare una celebrazione individuale. L’Annual deve essere il racconto pubblico della nostra funzione e utilità corale. Guardarlo solo tra noi e arrivare a “barare” e litigare per esserci, ne fanno un libello patetico.
E serve altro. Se siamo un Club.
Di seguito trovate alcune attività che se sapremo essere davvero un Club dovremo essere in grado di svolgere.
Serviranno a spiegare all’opinione pubblica e alle istituzioni che la pubblicità non è necessariamente quella roba che si sono abituati a vedere. Che non tutti i pubblicitari sono dei cialtroni o degli individui dalla moralità equivoca.
Che non è vero che “la diamo a tutti” è
un gioco di parole diretto e capace di catturare l’attenzione, secondo la ferrea legge che recita: “Il sesso, in pubblicità, vende”. Tutto regolare, tutto entro i limiti della decenza.
I Quaderni dell’Art DIrectors Club Italiano.
Il nuovo sito Adci, on line da fine settembre, permetterà ai soci di uploadare, in tempo reale, tutti i lavori onair nell’area “Magazine”. Non devono essere necessariamente le campagne che poi verranno iscritte agli Adci Award. Quella è una scelta che i soci potranno fare successivamente, limitandosi a una comoda selezione con pochi clic.
Questa nuova funzione del sito si presta alla creazione di un contenuto (i quaderni Adci) da veicolare periodicamente (2/3 volte all’anno) all’interno di un settimanale o mensile da identificare.
I quaderni Adci avranno un compito analogo a quello che abbiamo assegnato all’Annual Adci 2012 e che verrà pubblicato a novembre da Skira: raccontare un’Italia in transizione. Fornire, sempre in tempo reale, una radiografia ragionata della comunicazione nell’Italia contemporanea, con interventi, digressioni e diramazioni verso tutto ciò che le fa da contesto. Fil rouge: come siamo, da che parte andiamo, come si sta modificando il nostro immaginario.
Cosa serve.
Che tutti soci uploadino le nuove campagne in uscita nel Magazine del nuovo sito Adci.
Che un team di soci volontari selezioni (non è un premio) i lavori più utili a costruire questo racconto in tempo reale.
Usare l’Archivio Adci.
Gli oltre 5000 lavori selezionati in questi 27 anni hanno la stessa utilità dei ricordi dimenticati in una soffitta polverosa se non vengono utilizzati. Potrebbero diventare l’evidenza a supporto di quella che è la nostra ragione di esistere. Dell’essere l’unica associazione che nei fatti persegue una visione etica della comunicazione.
Con la collaborazione di altri soci abbiamo selezionato oltre 500 annunci stampa e affissione in grado di raccontare, in maniera brillante, il nostro costante sforzo, attraverso i decenni, di offrire un contributo di qualità all’immaginario.
C’è di che realizzare un ebook, specie se integrato dal racconto di chi ha ideato quei lavori.
L’interesse potenziale c’è. I banali slide show delle shortlist adci 2012, da me condivisi in rete su slide share, hanno avuto oltre 100 mila visite uniche nel mese di aprile.
C’è anche di che realizzare una mostra itinerante, magari coinvolgendo un curatore esterno che operi una selezione finale.
Nella “nostra soffitta” ho anche trovato centinaia di commercial che ancora (e soprattutto) oggi potrebbero dimostrare, senza bisogno di molte parole, cosa sia la vera pubblicità. Non sarà un problema trovare i cinema disposti a organizzare una serata no stop di proiezione.
Cosa serve?
Ho bisogno di aiuto da colleghi che si siano riconosciuti nel profilo “i soci che servono all’Adci” pubblicato nella seconda parte di questo post.
Occorre recuperare e trasformare in formato digitale tutti i commercial entrati negli Annual a partire dal 1985.
Il Manifesto Deontologico Adci (in pratica).
Negli ultimi cinque anni è cresciuto esponenzialmente il dibattito in rete sulle responsabilità del nostro lavoro nel contribuire a fissare e cristallizzare discriminazioni di genere.
È un dibattito destinato a crescere ulteriormente e non possiamo restarne fuori. Non possiamo lasciarci confondere nell’orda selvaggia dei pubblicitari.
Dobbiamo fare in modo che il nostro Manifesto Deontologico venga tradotto in pratica.
Ho bisogno di soci disposti a raccontare con costanza e frequenza gli esempi di comunicazione che rispettano il nostro manifesto e quelli che lo tradiscono. Abbiamo bisogno di dare vita a una sezione del nostro sito che usi il Manifesto come filtro per separare le reali forme di inquinamento cognitivo da ogni tentativo virtuoso di affermare che un’altra comunicazione è possibile, anche laddove non vengano raggiunti quegli standard di execution “da premio”.
I princìpi e gli appelli servono a poco sinché restano sulla carta e non vengono tradotti in esempi.
Serve anche molta apertura al dialogo perché parliamo di un tema dalle mille, complesse, sfaccettature.
Malgrado l’inevitabile sospetto iniziale, ho trovato molta disponibilità al confronto negli incontri pubblici ai quali ho preso parte. Lo scorso giugno sono intervenuto in veste Adci a un simposio.
Mi è stato riportato un commento (positivo nelle intenzioni) che reputo emblematico della nostra attuale reputazione: “non sembrava nemmeno di sentir parlare un pubblicitario”.
Credo di avere provato la sensazione di quelle donne delle quali i colleghi dicono, per parlarne bene: “non sembra nemmeno una donna”.
Ma l’apertura c’è. In associazioni (come Donne in Quota, e Pari e Dispari, per esempio) numerose università e blogger di attiviste.
Se dimostreremo di essere realmente interessati a qualcosa di più che all’autopremiarci, potremo dare un contributo importante al raggiungimento di un obiettivo che è anche nostro: persuadere le aziende che un’altra comunicazione non è solo possibile, è doverosa e per loro conveniente o non riusciranno più a dialogare con gli utenti. Sta già succedendo ma se ne attribuisce la colpa alla frammentazione dei canali più che alla frammentazione di testicoli e ovaia determinati da contenuti inguardabili.