Dalla bella figura al design | Paola Antonelli, Hall of Fame ADCI 2015

Laudatio a cura di Till Neuburg

Nella lingua italiana, design è sinonimo di linea, forma, bellezza – una sorta di deus ex machina che nobilita un oggetto normale in un’alta testimonianza della modernità. Se invece vai a vedere come i dizionari anglosassoni definiscono questo vocabolo, salta fuori una parola molto più semplice e concreta: progettazione.

   Chi in giro per il mondo inventa, definisce, propone un oggetto, un sistema, un’idea produttiva, è niente di meno e niente di più di un progettista il quale – inevitabilmente – interagisce con la curiosità, l’estro, la tecnologia, l’energia, la società. Oltre a essere, in modo implicito, un ideatore, un artefice, un trasformatore, il designer è anche un insaziabile disseminatore di FAQ. Un sollevatore di pesi, misure e tante domande; un ossessivo cronista, spia e paparazzo culturale, che si agita ben oltre i fatidici Five Ws (Who, What, Where, When, Why). A lui interessa prima di tutto How.

   Ma, per raccontare il Magical Mystery Tour dal nostro far bella figura al design, facciamo un fast rewind – fino al giugno del 1989. Il giorno 5 di quel fatidico e prolifico mese, in un’enorme agorà di Pechino un giovanotto innescò un’ennesima Lunga Marcia, che avrebbe spinto un quinto della popolazione mondiale dai Libretti Rossi verso i carri armati e infine anche in direzione del consumismo, del profitto e dell’iPhone. Esattamente una settimana dopo, in un resort sciistico del Colorado, un altro giovanotto, un tantino più avanti negli anni, avrebbe messo sottosopra per sempre il tantra meneghino del disain. In occasione dell’«Italian Manifesto» all’International Design Conference di Aspen, il nostro Achille Castiglioni scombussolò allegramente l’immagine che le nostre riviste, cucine, poltrone, penne stilografiche, posacenere e automobili avevano disseminato nel Wonderland internazionale dell’estetica lavorativa e abitativa. Di fronte a una platea entusiasta, divertita e allibita, in appena dodici minuti quel matto ridicolizzò per sempre l’estetismo neo-milanese/brianzolo. (Da qualche mese, quell’evento è ora godibile anche su YouTube). Incurante di cosa avessero da dire o ridire i suoi numerosissimi ultrà di lingua inglese, il nostro figlio di Teti in armi verbali e gestuali, tranquillamente si esprimeva nell’idioma in uso in Piazza Castello 27. Tra i complici che facevano parte di quella spedizione propositiva, c’era praticamente tutto il gotha della Milano del design: Bellini, Cerri, Clemente, Colombo, Cutolo, De Lucchi, Giacomoni, Lupi, Magnago Lampugnani, Sacchi, Talarico, Viti. In mezzo a loro, c’era una tostissima e giovanissima interfaccia tra storia, didattica, giornalismo, ricerca, divulgazione e progettazione, di nome Paola Antonelli.

   Ridendo, scherzando e traducendo, la “nostra” Paola non solo se la cavò benissimo a gestire in modo competente e divertente quella lucida dissacrazione live, ma dimostrò da subito – per chi non l’avesse ancora capito – di che stoffa era fatta. Non certo di ricami verbali, teoremi damascati e riti triti e inamidati, ma della più cangiante texture che già allora era a portata di mente per chi amasse svolazzare lassù – nel rarefatto ma indissolubile intreccio tra competenza, passione, mobilità fisica, linguistica e mentale… and so on.

   Nata a Sassari e vissuta per pochi anni a Ferrara, Paola Antonelli era diventata una milanese doc. Non certo della Milano da succhiare, della rucola e della movida lungo gli Sbadigli, ma quella degli studi e del lavoro, del planning e dell’efficienza, dei viaggi e del diamoci da fare. A casa sua la cultura non si scriveva con la C maiestatis (come in Costituzione, Via Crucis, Carabinieri), ma con una semplice c – come in casa, capire, competenza, carriera (come ematologa quella di sua madre, nella chirurgia quella del padre).

   Da piccola sognava di fare la Valentina Tereskova che proprio nell’anno della nascita di Paola, era stata la prima donna a superare gli orizzonti terrestri della brava ragazza, della compagna obbediente, dell’alcova. Se oggi ci rallegriamo per il (fugace ma sagace) rientro della nostra Samantha Cristoforetti del design, festeggiamola con una standing ovation da Prima della Scala… che, mi auguro, s’interromperà solo quando anche il più giovane e ignaro creativo italiano avrà capito che non tutti i progetti per un futuro interessante nascono per forza a misura Duomo.

   Prima che, una ventina d’anni fa, Paola Antonelli spiccasse il volo stratosferico per il Museum of Modern Art, il suo curriculum era stato geograficamente a zigzag, ma dal punto di vista professionale sempre perfettamente lineare: dopo due anni poco felici alla Bocconi s’iscrive al Politecnico e si laurea in architettura; poi, esperienze di concept, layout e organizzative per mostre di design in Italia, in Francia e in Giappone lavorando con Italo Lupi, Giulio Castelli, Paolo Viti, Achille Castiglioni, Pierluigi Cerri; segue qualche esperienza con la Triennale di Milano; approda infine all’UCLA (University of California Los Angeles) dove insegna per quasi quattro anni. Durante uno dei suoi tanti voli tra le due coste americane legge un annuncio con il quale il MoMA cerca una persona adatta per fare l’assistant curator per iniziative espositive; lei si ritiene adatta e i capi del museo la pensano allo stesso modo. Affare fatto.

   Tutto qui? Nemmeno per sogno. Dopo essere diventata Curator, Senior Curator e infine anche Direttore Ricerca e Sviluppo del Museo, oggi insegna alla Harvard Graduate School of Design, ha già svolto ben tre magnifiche conferenze TED (Technology Entertainment Design), partecipa regolarmente al World Economic Forum di Davos. Tra le sue centinaia di lezioni, master, interviste, premiazioni e speech per sigle come BaseNow, BBC World News, Wired, Big Think, Design Boom, Hyperallergic, MIT Media Lab, PopTech, Seed, Sensorium, Meet the Media Guru (a Milano)… e decine e decine di altre presenze pubbliche, nel 2011 il primo e più prestigioso Art Directors Club del mondo, quello di New York, la elegge nella sua Hall of Fame motivando la induction con queste semplici parole: “Attraverso le sue mostre, lezioni e contributi scritti, si batte per promuovere una più profonda comprensione dell’influenza trasformativa e costruttiva del design sul mondo”.

   È una motivazione che noi dell’ADCI non solo sottoscriviamo con caratteri cubitali, ma evidenziamo col marker pink fosforescente più accecante che si possa trovare in giro per Milano. In quella nobile bacheca newyorchese – che ha per logo nientemeno che la firma di Albrecht Dürer – Paola si trova in compagnia di gente come Richard Avedon, Saul Bass, Herbert Bayer, Bill Bernbach, Alex Bogusky, Leo Burnett, A.M. Cassandre, Lee Clow, Walt Disney, David Droga, Charles Eames, Steven Frankfurt, Milton Glaser, John Hegarty, Jim Henson, Helmut Krone, Annie Leibovitz, George Lois, Herb Lubalin, Nicholas Negroponte, Shirley Polykoff, Joe Pytka, Paul Rand, Norman Rockwell, Joe Sedelmaier, Ben Shahn, Art Spiegelman, Andy Warhol, Dan Wieden… e di altri due italiani: Giorgio Soavi e Massimo Vignelli.

   Ormai lo capiscono anche dalle nostre parti che Paola Antonelli non è solo una donna di mondo, ma qualcosa di dannatamente più seducente e inquietante: una sorta di TomTom culturale, una donna-drone che si agita e s’innalza in ambienti sempre on the edge, preferibilmente mimetici, multimediali, virali. Fa sorridere che questa infographic novel sia iniziata in una Milano dove sotto i ricordi del Derby Club, del Santa Tecla, dei cinema di Prima, Seconda e Terza visione, del Premio Bagutta, della Grande Inter e di Carosello, c’era ancora scritto un virtuale “Vernice fresca!” Il design meneghino era coniugabile solo se faceva rima con sigle tipo Danese, De Padova, Brionvega, Fratelli Nava, Fiorucci, Pedano, Ottagono, Casabella, Electa, Umanitaria, Piccolo Teatro, Unimark e, last but never lost: ADI e Compasso d’Oro. Tutti nomi, sigle e identità che si trastullavano di preferenza in una Milano più benedetta dai danee, che autenticamente e semplicemente bene. I rari outsider che di quel bon ton sostanzialmente radical chic se ne fregassero allegramente (Castiglioni, Del Buono, Dorfles, Munari, Soavi, Trischitta) giocavano di preferenza a tutto campo, spesso fuori ruolo, dribblando – se erano in giornata – qualche volta persino sé stessi. La sella da trattore, Krazy Kat, il Kitsch, i gesti italici delle mani, il cane con la Valentina, la mostra itinerante Exhibit… non rientravano certo nel decalogo del formato DIN A4, dell’Helveticatondochiarocorpodieci, della sezione aurea da vecchio PCI.

   C’era in giro un clima ossessivamente e pedissequamente nordico, un po’ da regime Victorinox, da norme DIN, da Leica, Bauhaus e prodotti Braun, che con tutta evidenza non giovava più al metabolismo di una giovane studiosa la quale era ormai già atterrata, non solo con la testa, lontano dalla Malpensa: prima a L.A. e poi a NYC.

   Quell’enorme provincia chiamata U.S.A. non era (e non è) solo il Big Country dello Star Spangled Banner, dell’Apple Pie e dell’American Dream. In alcuni isolotti di nome Frisco, Seattle, L.A., Miami, Boston e NYC., di quando in quando scoppiettano dei popcorn che qui da noi si possono sentire, vedere e gustare al massimo nel web o in qualche multisala dell’immaginazione. I Beatniks, il Grunge, la Wieden & Kennedy, la HP e la Apple, Google, Crispin Porter+Bogusky, il BeBop, Woody Guthrie e Bob Dylan, la DDB di Bill Bernbach, tutta l’epopea della Pop Art, la Juilliard School, Woody Allen (e potremmo andare avanti per almeno altre venti righe)… sono proprio il Dark Side of the Moon di un paese dove, nonostante Nixon, il KuKluxKlan e Dianetics, “succedono” le cose che qui non capiteranno mai.

   L’Italia (prima durante il Boom, poi ai tempi del Milione di posti di lavoro e oggi con i pimpanti venditori del nulla nei sempre più anoressici toksciò) non ce l’avrebbe mai fatta ad affidare a una “donna sola al comando” le sorti comunicazionali del più importante museo d’arte del paese. Al MoMA, oltre a organizzare mostre di rilevanza epocale, la Antonelli si occupa anche di come orientare il traffico di chi frequenta quel posto facendo surfing sul web. Interpellata da Vittorio Zincone su cosa pensasse di questo nostro inamovibile specchietto retrovisore per allodole, per pavoni, gufi, corvi, avvoltoi e pappagalline di ogni inimmaginabile colore, Paola Antonelli non si tira indietro: «Diciamolo: in Italia la mia è una generazione persa. Non ha possibilità di affiorare. La generazione prima, quella dei sessantenni, non molla l’osso. Hanno messo un tappo. Per motivi di età e di sesso: nessuno mi avrebbe nominato curatrice a trent’anni, come è successo al MoMA, e malgrado le mille conquiste, in Italia la disparità tra uomini e donne è ancora assurdamente tangibile».

   Ne sappiamo qualcosa persino noi, che l’abbiamo eletta in questa defilata ma combattiva Hall of Fame. A partire dal lontano 1990 (quando nacque la galleria dei nostri eroi) fino al 1999, in nove lunghi anni la proporzione tra fiocchi azzurri e quelli rosa era stata di 47 a 1 (q-u-a-r-a-n-t-a-s-e-t-t-e-a-u-n-o!!!). La prima Eva che avevamo cacciato nel Paradiso della nostra pubblicità, si chiamava nientemeno che Fernanda Pivano (un’italiana che, con il suo infinito amore per i grandi scrittori statunitensi, i poeti beat e infine gli autori postmoderni, ci aveva insegnato che, dopo Cristoforo Colombo, l’America avremmo dovuto scoprirla come minimo una seconda volta). Piombammo poi in un altro letargo novennale prima di eleggere, nel 2012, Annamaria Testa. Nel 2013, con Giovanna Cosenza a Lorella Zanardo, riuscimmo finalmente a completare il nostro primo poker d’assi al femminile.

   Ora, nel 2015, quell’irrequieto quartetto femminile si tramuta finalmente in un Batti il cinque che non solo coinvolge tutte quante le nostre dieci dita (clapclapclap), ma segna anche il numero dei continenti, il pentagramma, la quintessenza… e, prima ancora, l’accesso al MoMA all’angolo con la Fifth Avenue, che di netto taglia in due la città più vitale, ricca, stimolante del pianeta. Cara Paola, come è possibile che lì da te, le italiane e gli italiani con il pepe sotto il sedere ce l’abbiano fatta a smuovere persino le routine testardamente W.A.S.P. della nazione più potente del pianeta, mentre qui da noi a malapena riusciamo a salvare il salvabile del nostro paesaggio, del nostro cibo, della bellezza intesa – appunto – come “linea”, “estetica”, “far bella figura”?

   Com’era possibile che per eccellere nella scienza, nel cinema, e persino nella musica e nell’arte, ai vari Frank Capra, Enrico Caruso, Leo Castelli, Renato Dulbecco, Federico Faggin, Enrico Fermi, Giancarlo Menotti, Rita Levi-Montalcini, Tina Modotti, Rodolfo Valentino, bastasse abbandonare la loro terra per trovare Lamerica dei loro sogni a migliaia di chilometri a ovest, oltreoceano, nel versante estremo dell’Occidente? Sarà un caso che “la vita bella” e “la grande bellezza” del nostro vivere day-by-day siano ancora saldamente intrecciati con il finto, l’ignoranza, le bugie e il kitsch? Come tutti sappiamo “far bella figura” è prima di tutto un segnale di panico e di sottomissione, un’esortazione alla messinscena, un autentico must dei perdenti. Ma è un pensiero che fa talmente parte del nostro DNA culturale, che di fatto è un’espressione gergale intraducibile. Per spiegare a un norvegese, cinese o americano cosa significa questo ghirigoro concettuale, dovremmo scomodare Tullio De Mauro, Umberto Eco e forse persino Roberto D’Agostino. Pare che, in senso reverse, da noi il vero significato della parola design, sia altrettanto intraducibile. Da qui, una domanda semplice e secca: Come mai, per un occhio attento alle vicende visive italiane, i titoli delle seguenti mostre inventate tutte da Paola Antonelli sembrano così inconsueti, curiosi, diversi?

            –  Mutant Materials in Contemporary Design (1995)

            –  Open Ends (2000)

            –  Workspheres (2001)

            –  Humble Masterpieces (2004)

            –  Design for the Real World (2006)

            –  Safe: Design Takes on Risks (2006)

            –  Design and the Elastic Mind (2008)

            –  Rough Cut: Design Takes a Sharp Edge (2008)

            –  Action! Design Over Time (2010)

            –  Talk to Me: Design Between People and Objects (2011)

            –  Standard Deviations: Types and Families in Contemporary Design (2011)

            –  Design and Violence (2015)

   Come si vede, quasi sempre vi compare anche la keyword design. Invece i lemmi beautiful, look, taste, shape, figure, pleasant, non appaiono mai. Il design che ha in mente Paola Antonelli è evidentemente molto più avanti rispetto a questa gamma di valori. Tutto qui.

   Un Tutto e un Qui piuttosto rilevanti, mi sa. Non credo che la nostra festeggiata sia particolarmente attratta dai canoni che guidano la genesi e i consumi nel nostro luxury design, ma piuttosto dal fatto che, per esempio, per condire la pasta con qualche colpo di grattugia di Genuine Italian Parmisan non dobbiamo compiere una trasferta chilometrica da Peck, da Eataly o da qualche gioielliere di slow food, ma basta che facciamo un salto nel negozietto sotto casa. Tutto il contrario di quanto succede nella New Amsterdam dei nostri giorni. Cosa sia (e sarà) il nostro design, forse dobbiamo ancora scoprirlo – senza scomodare sempre e solo la sezione aurea, l’Helvetica, il quadrilatero della moda, il Salone del Mobile, la Lambretta e il Compasso d’Oro.

   Senza smentire le nobili radici della nostra reputazione estetica, per Paola Antonelli il nostro vero design sta altrove.Nella socialità, nei conflitti tra materia e pensiero, in un nuovo div-ismo tra divertimento, divulgazione e diversità. In una parola: in noi stessi e nel futuro che stiamo annusando pure noi – i cani tartufo della comunicazione aka art director e copywriter.

   Bentornata Paola, è bello sapere che ci sei. A New York City. In giro per il mondo. Qui.

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