L’Art Directors Club Italiano, i fake e le noccioline.
Le campagne italiane considerate innovative, originali, un benchmark, non solo agli Adci Awards ma anche al festival di Cannes, raramente sono sostenute da investimenti superiori ai 500 mila euro.
Se sommassimo l’investimento media degli ultimi 4 leoni italiani, che importo raggiungeremmo secondo voi?
Temo non andrebbe meglio nemmeno se considerassimo gli investimenti media che hanno supportato complessivamente gli ultimi trenta leoni italiani. Peanuts.
Eppure, ogni anno, Cannes e i più importanti festival oltre confine premiano moltissime idee sulle quali grandi aziende internazionali hanno puntato decine di milioni di euro. Soldi veri per progetti veramente rilevanti.
Perché in Italia le aziende investono soldi veri solo su campagne poco originali e innovative, spesso anche stupidotte e non professionali?
Forse che la comunicazione di massa debba essere in Italia necessariamente arretrata?
Ho preparato uno slideshow di tutti i lavori entrati nell’Annual Adci 1992.
Potete confrontarli con la shortlist dei lavori entrati quest’anno. Vi consiglio di farlo. Offre molti spunti di riflessione.
Il punto principale riguarda l’evidente importanza che aziende leader attribuivano ai “content”, vent’anni fa. E mi riferisco ad aziende di primissimo piano, attive in differenti settori merceologici.
Un’attenzione alla qualità e alla “consistenza” dei contenuti che oggi è scomparsa.
Riguardatevi le campagne entrate in shortlist nella sezione stampa&affissione agli Adci Awards 2012. Non chiedetevi quale sia “fake” e quale non lo sia. Non in questo momento e non in questa sede.
Facciamoci piuttosto altre domande:
quali e quanti di questi lavori sono stati sostenuti da un investimento superiore ai 500 mila euro?
A mio parere tre. Forse.
Quali e quanti di questi lavori sono stati sostenuti da un investimento superiore ai 250 mila euro?
Forse altri due.
Quali e quanti annunci sono stati supportati da un investimento media superiore ai 5 mila euro ma inferiore ai 100 mila euro? Temo la maggioranza.
Guardando a cosa è rimasto escluso, trovo al massimo tre lavori che avrei inserito nella shortlist. È un parere del tutto personale e riconosco alla giuria un’autorevolezza necessariamente superiore alla mia.
In ogni caso, i tre lavori che avrei incluso, tutti insieme, non arrivano ai 100 k di investimento media.
Rispetto a quello che sto cercando di dimostrarvi non avrebbero spostato il problema di una virgola.
Ciò che i migliori creativi italiani definiscono efficace non è ritenuto tale da chi investe in comunicazione. Tant’è che chi guida le aziende preferisce puntare le risorse strategiche su linguaggi (?) diversi.
Se un grande marchio, che investe oltre tre milioni di euro all’anno in advertising, entra nell’Annual con un lavoro su cui ha investito meno di 100 k (probabilmente meno di 50) io mi chiedo perché non abbia allocato la parte strategica del budget su una comunicazione altrettanto brillante.
La risposta, purtroppo, è che oggi non c’è più identità di vedute, tra creatori di contenuti e aziende. Se anche sommassimo l’investimento media che ha supportato tutti i lavori entrati nella shortlist agli Adci Awards, otterremmo una frazione omeopatica del reale totale investimenti. Nel 1992 trovavamo rappresentati nell’Annual Adci decine di settori merceologici e vari prodotti mass market. Compresi yogurt, lavatrici e cibo per cani. Vent’anni dopo la situazione è molto diversa.
Eppure gli ultimi dieci anni ci hanno dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, grazie a Internet e non alle ricerche di mercato, che i contenuti brillanti, quelli che sanno “ingaggiare” davvero gli utenti, sono gli unici in grado di guadagnarsi spazio. Il che implica che abbiano saputo anche attirare l’attenzione del target. Perché il comportamento dello stesso utente dovrebbe essere diverso quando fruisce dei nostri messaggio attraverso media classici?
Perché in Italia non riusciamo a far comprendere ai committenti quello che le più importanti aziende del mondo hanno compreso da tempo? Quello che molte grandi aziende italiane dimostravano di avere compreso perfettamente già vent’anni fa, ancora prima delle evidenze fornite da Internet.
Vedo due motivazioni.
La prima l’ho ripetuta ormai infinite volte. In Italia non ci sono più grandi agenzie fondate o guidate da creativi. Dominano i “mezzani&ragionieri”, non creatori per definizione. Quindi, tra creatori di contenuti e imprenditori non c’è quasi mai un dialogo diretto o una autentica relazione.
È sicuramente un peccato per entrambi. Le due categorie, i due profili umani, sono accomunati dalla spinta a creare valore, anche se possiedono competenze diverse.
La seconda ragione è che anche tra i creatori di contenuti spesso manca una visione comune di cosa renda bella ed efficace una campagna.
Diversi soci, giovani e non, negli ultimi mesi mi hanno espresso un disagio che Annamaria Testa ha riassunto in queste tre righe:
i primi anni del club eravamo tutti più o meno d’accordo su che cosa fosse una buona campagna. Adesso, non nascondiamocelo, non è più così. E alcuni parametri di base si sono proprio perduti. Per esempio, la necessità di essere semplici e comprensibili. Di dire – bene – qualcosa di rilevante.
Sarebbe sano ripartire da quelli. Sano ma, temo, noioso.
La stessa Annamaria Testa, in uno scambio di opinioni sui criteri con cui valutare il nostro lavoro, ha scritto:
una campagna pubblicitaria, su qualsiasi medium e anche, finché c’è, sulla stampa, deve o presentare un prodotto nuovo, spiegandolo, o vantare le caratteristiche distintive di un prodotto noto (non della merceologia a cui questo appartiene, a meno che non si tratti di una campagna collettiva), o rendere interessante un prodotto banale e noioso, o rendere simpatico un prodotto tetro, o delineare nuovi e più consistenti motivi di acquisto… e così via.
Ci basta un’immagine curiosa, corredata da un titolo spesso pretestuoso e là, nell’angolo, il prodotto, messo lì come una minuscola foglia di fico?
Davvero vogliamo continuare ad accontentarci di qualche pacca sulla spalla, una volta all’anno, agli Adci Awars e magari anche a Cannes? Davvero ci bastano poche noccioline di un business che dovrebbe essere nostro? Quando ricominceremo a ruggire tutti i giorni riappropriandoci del nostro ruolo? Solo le scimmiette ammaestrate possono trovare la felicità in qualche nocciolina.
NOTA IMPORTANTE
l’archivio storico degli oltre 5000 lavori selezionati dall’Art Directors Club è potenzialmente un piccolo patrimonio culturale. Ed è tenuto da schifo (lo slideshow lo dimostra). È nel nostro interesse “restaurarlo”, ma serve la collaborazione di tutti.
1) tutti gli autori di lavori entrati nei primi venti annual dovrebbero controllare quanto siano effettivamente fruibili e consultabili. E mandarci un formato più attuale, in modo che testo e immagini possano essere visti
2) tutti gli autori di commecial entrati negli annual dovrebbero inviarci un file digitale che ne possa consentire una programmazione di qualità anche in un cinema.
3) abbiamo bisogno di volontari, anche tra i più giovani, per raccogliere i materiali e riorganizzarne la fruizione. È un lavoro che può insegnare e far riflettere sul fatto che non dovreste mai e poi mai accontentarvi delle noccioline.