Un lungo viaggio “immaginario” – dall’Alto Adriatico verso il basso profilo.
di Till Neuburg
Come una volta si diceva dalle parti di San Giusto o dei Navigli, Giovanni Porro non è uno che “se la tira”. Piuttosto che stravincere con una fortunosa scala reale, preferisce giocare a ciapa no – come di quando il triestino Nereo Rocco mandava in campo il suo coriaceo Padova contro la solita e stravincente Juve… e un gazzettaro un tantino mona gli augurò “Che vinca il migliore!” meritandosi la beffarda replica del burbero Paròn: “Speremo de no”.
Se un Art director con la A majestatis nasce e cresce in una città segnata dall’Irredentismo, dai confini altalenanti tra Impero asburgico, Regno savoiardo, Jugoslavia e Repubblica italiana oppure dalla Bora visiva di Marcello Dudovich, Leo Castelli, Gillo Dorfles, Leonardo Sonnoli e Riccardo Illy… è difficile che poi quel giovinóto si accontenti di un quieto sopravvivere professionale in una spettropoli padana/briantea dove ormai la storica verve dei vari Arcimboldo, Baj, Boccioni, Fontana, Piero Manzoni, Mendini, Mulas, Munari, Ponti, Sambonet e Sottsass si è mestamente tramutata in un copificio vieppiù minimalista e modaiolo.
Il nostro concittadino di Magris, Strehler e Svevo, ha avuto un imprinting che chiamare artistico sarebbe un understatement degno di Finnegans Wake: a cavallo tra gli Anni 50 e 60, in compagnia di altri artisti come Leonor Fini, Gentilini, Greco, Maccari, Purificato, Sciltian, Severini, Turcato e Vedova, i suoi genitori Laura e Vittorio Porro avevano decorato gli interni del mitico transatlantico Raffaello.
Il padre Vittorio è stato un artista a dir poco poliedrico: i suoi disegni, dipinti e sculture erano autentici concentrati di virtuosismo che venivano esposti non solo a Trieste, Udine, Pordenone, Genova e Milano, ma anche in Francia, Inghilterra, Danimarca, Belgio, Olanda e Giappone. Forse il massimo della sua inventiva e appassionante manualità, il babbo di Giovanni la esprimeva tramite la valorizzazione cromatica di una gamma di legni di stupefacente varietà: acero, bosso, carpino, chaplash, ebano, faggio, kussia, mogano, noce, palissandro, padouk, palma, parajou, pioppo, sertao, tek, tiglio, tulear. Questa moltitudine vegetale gli serviva per esaltare il cromatismo delle repliche tridimensionali di una lunga serie di insetti (coleotteri, mantidi, cavallette, cervi volanti, coccinelle, api, scarabei e persino mosche), in scala decisamente soprannaturale (mai al di sotto del mezzo metro), per ricostruire e mettere in risalto i prodigi strutturali, dinamici e articolari di un mondo che solitamente crea panico, angoscia, repulsione. Va da sé che il titolo “Metamorfosi del legno” di una sua mostra tematica del 2009, era ispirato all’inquietante risveglio di Gregor Samsa, evocato dal più visionario premonitore dell’alienazione, il mitteleuropeo Franz Kafka.
Secondo il curatore della rassegna, l’antropologo Renzo Barbattini del Dipartimento di biologia e protezione delle piante dell’Università di Udine
“…il fantasmagorico e caleidoscopico mondo degli insetti ha stimolato l’immaginazione creativa di Vittorio Porro, un artista alla ricerca d’espressioni plastiche proprie e originali per concezione, forme e materiali”.
L’autore di queste righe aggiunge che oltre al valore artistico, scientifico e artigianale di queste opere, stupisce anche l’estrema cura calligrafica, d’impaginazione e iconografica dei suoi progetti che, puntualmente, si ritrovano anche nei layout di suo figlio:
Oggi, per accertarsi che il destinatario di un messaggio digitale non sia un alieno escogitato da un’intellighenzia sempre più distante e spocchiosa, ci viene chiesto di autocertificarci come esseri viventi (in carne, ossa, sinapsi, sudore ed emotività) tramite un fugace clic da spuntare in un quadratino di sempre più spiazzante piccolezza e banalità. Questo modus sopravvivendi, con un ironico mix tra distacco e pragmatismo, il festeggiato di queste righe lo ha traslato, tel quel, nel naming del suo ultimo nato. Infatti, “I’m not a robot” non è affatto un giochetto di parole, una boutade, un’astuta bisboccia ricreativa, ma un autentico fischio d’inizio di una partita del quorum tra chi la sa più lunga sulla comunicazione – palesemente poco “social”, ma autenticamente sociale – che è iniziata appena quattro anni fa.
Pare che questa scommessa la stia stravincendo proprio lo sfidante (e il suo piccolo dreamteam) – e non il mumble-mumble di chi (già allora, oppure ancora, in pieno periodo S.E.O., binario e virtuale), si ostinava a confondere l’Auditel, il sondaggismo e le ciance degli opinionisti con l’empatia, le passioni e i dubbi delle minoranze delle vecchie maggioranze che, sempre più sfiduciate, continuano a rispettare le leggi, a pagare le tasse e a recarsi alle urne.
Se vai sul sito di questa nuova realtà, Giovanni Porro e Alessandra Schwitter, mettono subito in chiarissimo che “La gente odia la pubblicità. Siamo onesti: alla gente la pubblicità non piace. E neanche a noi”. Va da sé che anche il sottoscritto si considera, a pieno diritto e dovere, una tessera di quell’anonimo puzzle chiamato, appunto, “gente”.
Prima di aprire la loro agenzia, per lunghi anni i due fondatori avevano affinato la loro incontenibile voglia di confondersi con i cittadini (ancora troppe volte travisati in target, audience, consumatori), nella sede milanese della multinazionale Havas la quale, nel lontano 1835 a Parigi, era stata nientemeno che la prima news agency del mondo.
Dopo il suo esordio milanese nella Lowe Pirella Göttsche, la vita professionale di Porro è stata segnata da una lunga serie di acronimi del mondo pubblicitario: DLV BBDO, BGS DMB&B, Euro RSCG, ma anche dalle loro propaggini tecniche PPM, SFX, PAL, RAM, B2B, ADCI. Quest’ultima sigla era stata risvegliata di soprassalto quando, sotto la presidenza di Lele Panzeri, la nostra associazione aveva indetto una sorta di concorso in omicidio preterintenzionale per sostituire il vecchio logo: ricordo come se fosse oggi, quando una coppia felicemente fuori di testa (e dagli schemi del solito logo design) formata da Stefano Campora e Giovanni Porro, si presentava nel consiglio per proporci una sorta di freeze frame multilayer estrapolato da un’immaginaria sequenza videographic:
Secondo loro (e subito dopo, secondo l’intero consiglio), il club doveva e poteva darsi una scossa – anche nella sua identity visiva. Sovrapporre quattro epoche, caratteri e stilemi in un unico segno tipografico, sembrava un modo finalmente storicistico per firmare la vendemmia editoriale di un’annata di campagne che avevamo appena stappato e assaggiato.
L’anno successivo, la stessa accoppiata aveva “curato” (si fa per dire) la copertina e i titoli interni del 18° annual dell’ADCI. La presentazione di Panzeri iniziava con un impietoso “Freddo nelle ossa” perché, secondo lui (e l’intero consiglio di cui facevano parte anche Campora, Porro e il sottoscritto), il Club era “…vecchio decrepito come il signore fotografato in copertina” sostenendo che dovevamo favorire un risoluto ricambio generazionale e mentale tra i soci.
Anche il titolo dell’intro di Campora non era particolarmente spassoso. Con l’incipit “Morale sottoterra” i curatori del volume volevano dissociarsi dallo sponsor fasotutomi di Dell’Utri e dello stalliere pluriomicida di Arcore, che sosteneva che un giudice è “un essere antropologicamente diverso”.
Con il suo breve commento, Campora ci teneva che quei giudizi sulle cosiddette toghe rosse non fossero confusi con i criteri delle giurie che avevano appena assegnato l’Oro agli autori dello spot italiano più innovativo e ingegnoso di tutti i tempi.
Non meritatamente, ma dovutamente, questo prodigio creativo è stato premiato anche con l’Oro ai Cannes Lions, ai Clio Awards, all’Art Directors Club Europe e agli Andy Award, agli Epica Award e al New York Festival con l’Oro e il Grand Prix, ai Cresta Awards, all’Eurobest e all’International Car Advertising Festival con i Grand Prix. A tutto il 2003, secondo il Gunn Report, era la single campaign più premiata nella storia della pubblicità. A livello internazionale, questi premi assumono un altissimo valore aggiunto se consideriamo che quell’anno, nel solo settore automotive, questo commercial se la doveva vedere e sentire con gli storici “Sheet Metal” per la Saturn (agenzia Goodby Silverstein & Partners, regia di Noam Murro) e “Smile” per la Volkswagen (agenzia Boase Massimi Pollitt DDB, regia di Ivan Zacharias), ma anche con “Odissey” per Levi’s (agenzia BBH, regia di Jonathan Glazer), con “Les nuages” per Air France (agenzia BETC di Rémi Babinet, regia di Michel Gondry) e con “Lamp” per Ikea (agenzia Crispin Porter+Bogusky, regia di Spike Jonze).
Nel curriculum di Porro ci sono parecchi altri spot che non si limitavano a vendere un prodotto o un servizio, ma che piuttosto miravano ad allargare una community di persone. Un solo esempio: chi una ventina o trentina di anni fa, sceglieva di mettersi al braccio uno Swatch poteva, con ottime ragioni,
Nel cosiddetto segmento B del settore automotive, in quel periodo la concorrenza era particolarmente agguerrita. In campo pubblicitario, i produttori delle varie Clio, Corsa, Fiesta, Ibiza, Micra, Polo, Punto, Yaris e Lancia Y se le davano di santa ragione. I consumi, le prestazioni e la sicurezza (cinture, airbag, abs), erano i temi dominanti. Sebbene per tre anni di fila (dal 2000 al 2002), la Peugeot 206 avesse vinto il Mondiale Rally per costruttori, la guida creativa dell’agenzia Euro RSCG insistette per favorire una strategia di comunicazione imperniata sul palese design appeal della vettura.
Non solo ai festival, ma anche presso i giovani automobilisti in tutto il mondo, lo spot riscosse un’enorme popolarità – a tal punto che veniva messo in onda in ben 42 paesi… con un risparmio dei costi di produzione per la casa automobilistica, del tutto insperato. Il merito di quella performance se l’era conquistato un poker d’assi internazionale: 1) il car-designer turco Murat Günak che prima e dopo i suoi anni passati in Peugeot, era stato head of design alla Mercedes e alla Volkswagen, 2) l’italianissimo copywriter e condirettore creativo Roberto Greco della sede milanese dell’agenzia Euro RSCG (che purtroppo ci ha lasciati poche settimane fa), 3) il defilato ma geniale art director e protagonista triestino-meneghino del plot che state leggendo, e infine 4) il regista olandese Matthijs van Heijningen jr che con il suo spot “The Bear” per l’emittente francese Canal Plus, nel 2011 sarebbe poi definitivamente entrato nel Gotha dei telecomunicati più ironici e divertenti di tutti i tempi.
considerarsi un cittadino anticonformista e aperto che, disobbedendo ai vecchi diktat del prestigio, dell’eleganza e del bon ton, preferiva identificarsi con un lifestyle giovanile, ottimistico, egalitario, pop. Per due volte l’anno, l’agenzia BGS guidata da Pasquale Barbella, lanciava una sorta di appello collettivo che sarebbe stato più che funzionale anche per una casa di moda, un partito politico o il lancio di un film. Nel 1995, il brand inventato dall’imprenditore libanese- elvetico Nicolas Hayek, lanciava la sua nuova collezione primavera-estate con l’allusivo gioco di parole “The Others Just Watch”.
Uno dei numerosi soggetti dedicati alla serie Swatch Scuba Water Resistant per un uso prevalentemente sportivo, raccontava di una ragazza che in una stanza d’albergo rovente, squallida e malservita provava a farsi una doccia che, ovviamente, non funzionava. Però, la giovane – moderna, sveglia e creativa – trovava prontamente la risposta risolutiva al contrattempo: munita di una bustina di fiammiferi, sale su una sedia per attivare un sensore antincendio posto sul soffitto e godersi, finalmente, un’abbondante doccia rinfrescante che zampillava dagli ugelli spegnifuoco:
Un altro spot, molto più recente (concepito nel 2020 dall’attuale struttura guidata dal nostro frontman festeggiato), annunciava il nuovo quotidiano Domani, edito da Carlo De Benedetti. L’intento, perfettamente riuscito, era di esaltare l’indipendenza, il fiuto, l’intelligenza e l’orientamento della testata (sia cartacea che on-line) tramite un testimonial particolarmente affidabile come lo è un cane che tutte le mattine ci porta a casa il quotidiano preferito. Il titolo riassuntivo – estremamente semplice, convincente e stringato – era: “Domani. Indipendente, perché anche tu lo sia”:
Sin dalla sua nascita, la stessa agenzia agisce da vivavoce e caleidoscopio sociale per la più grande cooperativa dei consumi italiana, nata nel 1960 con un logo disegnato dal partigiano Albe Steiner e che venticinque anni dopo farà da leitmotiv visivo per un’innovativa corporate identity sviluppata dal designer Bob Noorda. Mentre il fondatore del competitor più agguerrito, Bernardo Caprotti, aveva avuto un imprinting sostanzialmente americano e individualista (il suo primo socio d’affari era stato nientemeno che Nelson Rockefeller), la Coop è invece controllata da oltre 8 milioni di soci popolari. Secondo il numero uno mondiale nella revisione di bilanci, Deloitte, Coop Italia ha un fatturato del 40% maggiore di Esselunga. Tra i due gruppi, i modi di relazionarsi con i cittadini e la legge, sono estremamente antitetici e lontani: quando nel 2007 il Tribunale di Milano aveva condannato la centrale che acquista i prodotti per Esselunga (“…per aver alterato il libero esercizio del commercio con l’impiego di mezzi fraudolenti”), Caprotti pubblicava un pamphlet paleopopulista dall’allusivo titolo “Falce e carrello” con il quale addebitava alla concorrente “rossa” una serie di presunte marachelle di politica locale. Alla luce di come Esselunga si è “mossa” nel recentissimo affaire Toti-Cozzani-Moncada, queste critiche assumono un significato a dir poco deviante e paradossale.
Non è invece affatto paradossale l’impostazione strategica e creativa con la quale, ormai da parecchi anni, l’accoppiata Porro/Schwitter contagia i responsabili del marketing e della comunicazione di Casalecchio di Reno: la star di questo blockbuster evergreen è un semplice carrello della spesa… del tutto privo di falci, martelli, stelle, strisce, croci, mezzelune, bandiere, marchi o altri orpelli identitari, che funge da leggiadro veicolo sia tematico che mediatico, per umanizzare – tramite molteplici coniugazioni di racconti, promozioni, location o plot – l’oggetto simbolo per eccellenza della grande distribuzione:
Con questa raffica video-grafica stiamo documentando un’autentica saga pubblicitaria, come raramente gli italiani avevano potuto con-vivere nel lontano o recente passato. Prima, forse solo la Linea di Cavandoli per Lagostina, lo sventurato Calimero, l’acqua Liscia, Gassata o Ferrarelle, la simpatica Natalina della Lavazza o gli United Colors of Benetton, erano riusciti a tramutarsi in icone di una talmente vicendevole e duratura empatia pubblicitaria.
Esattamente come “Una buona spesa può cambiare il mondo”, anche un partner creativo particolarmente simbiotico può rivelarsi come integratore decisivo per esaltare l’estro di un art director. Facendo sua la massima di Paul Valéry secondo la quale “Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia”, Giovanni ha sempre cercato di collaborare con persone dotate di inventiva altissima, purissima, lievissima. Infatti, i suoi complici creativi più assidui e premiati, sono stati (o sono) Pasquale Barbella, Selmi Barissever, Stefano Campora, Luca Cinquepalmi, Lorenzo Crespi, Maurizio D’Adda, Francesca De Luca, Marco Geranzani, Vicky Gitto, Michael Göttsche, Roberto Greco, Erick Loi, Frank Lowe, Alfredo Marcantonio, Tiziana Mariani, Alessandro Omini, Emanuele Pirella, Nathalie Schwitter, Jacques Séguéla, Roberta Sollazzi, Aldo Tanchis, Anna Triolo, Stefano Tumiatti, Marco Venturelli, Gianpietro Vigorelli, Dario Villa, Beppe Viola. Se proviamo invece a scoprire le persone che al di fuori della sua cerchia professionale lo hanno indotto a compiere dei salti mortali, stilistici o laterali, la sua pagina di Facebook ci porta senza tanti zigzag verso un suo mondo alternativo, abitato esclusivamente da outsider lontanissimi dalla pubblicità – come Banksy, Mario Botta, David Bowie, Monika Bulaj, Philippe Daverio, Erri De Luca, Giorgio Gaber, David Gilmour, Jimi Hendrix, Peter Higgs, Stanley Kubrick, Spike Lee, Cass Lewis, Alda Merini, Gianni Minà, Michael Moore, Jim Morrison, Riccardo Muti, Martin Parr, Michele Serra, Demetrio Stratos, Hans Zimmer.
Da scafato storico della comunicazione e autore di una nutrita serie di laudatio per la nostra Hall of Fame, confermo che il consiglio ADCI ha appena eletto un innovatore notoriamente defilato e di basso profilo – ma che invece nel suo vorticoso day-by-day, è tosto, caparbio e agguerrito. Pertanto, da parte mia gli assegno anche un titolo onorifico del tutto personale:
Giovanni delle Scorribande Giornaliere – nella cultura, nell’arte e nella pubblicità.