Brand Ecology: una riflessione che non ha nulla a che fare con il green
Autrice: Samanta Giuliani
In ambito strategico, spesso ci piace coniare nuove terminologie da inserire più o meno forzatamente all’interno delle nostre chart. Seppur per la maggior parte dei casi si tratti di un vago tentativo per confondere l’uditorio, sfruttando il bel noto fenomeno secondo il quale se durante una riunione usate un termine inglese ignoto ma vagamente credibile, nessuno avrà il coraggio di domandarvi che significato abbia, in alcuni sparuti casi la nascita di un nuovo termine corrisponde a una vera e propria rivoluzione nel modo in cui siamo abituati a guardare un certo fenomeno o un certo approccio alle cose.
Dentro le parole ci sono i semi di nuovi significati. E spesso non è la definizione esatta quella che dobbiamo cercare, quanto le suggestioni e le implicazioni che il nuovo termine ci apre.
Prendiamo un esempio: Brand Ecology. La prima cosa che viene in mente, è una netta associazione con il mondo della sostenibilità ambientale. Eppure il termine non ha alcuna attinenza con tematiche green.
La Brand Ecology è lo studio dei pilastri fondativi di una marca a partire dalla sua relazione all’interno di un ecosistema che – sorpresa sorpresa – non è influenzato solo dal consumatore/target demografico. Per “fare” Brand Ecology, occorre analizzare il proprio brand considerando tutti gli aspetti che ne influenzano l’ascesa o la caduta, e che possono contribuire ad arricchirne o impoverirne il valore: fenomeni culturali, fenomeni sociali, fenomeni economici, consumer behaviour, ma anche storia stessa della marca e dell’azienda.
In base a cosa vengono selezionati questi pilastri fondativi? Al cuore di tutto ci sono sempre i comportamenti, dando per assodato che modificarli o incentivarli sia alla base del marketing.
Quindi la domanda da farsi è: quali sono le aree di influenza che possono ragionevolmente avere un ascendente sul comportamento dei consumatori rispetto alla mia Marca? E da lì, quali possono controllare? Quali no? Sono un brand altamente adattivo, capace di ritrovare la mia nicchia ecologica anche al variare di queste aree di influenza, oppure mi rendo conto di essere dominante oggi, ma potenzialmente in difficoltà domani al variare di alcune influenze chiave?
Penso che la Brand Ecology sia un esercizio strategico molto interessante per le marche, perché non ragiona su una cieca sequenza di causa-effetto (“i miei consumatori guardano la TV, pubblicizzo i miei prodotti in TV”), ma anzi si guarda attorno, esce dai propri confini di marca e di azienda e si accorge della stretta rete sociale, culturale, economica e comportamentale a cui dobbiamo il successo o l’insuccesso di un’azienda. Individua prima di altri nuove nicchie da conquistare, e in questo è l’essenza stessa del trend-watching.
Come l’evoluzione, la Brand Ecology non “premia” nessuno: avvantaggia chi sa essere più flessibile, attento al proprio ambiente, sensibile ai cambiamenti. Non “possiede” canali e touchpoint, ma li “abita” fintanto che agevolano il suo scopo evolutivo. Sa modificare i suoi pattern di comportamento per muoversi in armonia con gli altri attori che popolano il suo ecosistema.
E tornando all’importanza delle parole nell’aprire nuove associazioni, vi propongo il raffronto tra Brand Ecosystem e Brand Ecology. A voi cosa suggerisce?