Postato il Dom 19 Mag 2013 da in La vita del ClubPubblicità in ItaliaRiflessioni

Perché firmare la petizione “fermiamo la pubblicità sessista”. #adci

campagna contro la pubblicità sessista in Italia, promossa dall’Art Directors Club Italiano (Corbis)

Chi è contrario alla petizione fermiamo la pubblicità sessista e cerca di boicottarla, sostiene questi tre punti:

La nostra pubblicità non è sessista.
Per scoraggiarla non servono nuove leggi.
Abbiamo già lo Iap (istituto di autodisciplina pubblicitaria) che ci invidiano in tutto il mondo.

Per sostenere la mia petizione mi ripropongo di argomentare i seguenti punti:

1. La nostra pubblicità non è sempre sessista ma è tra le più sessiste del mondo e questo concorre a determinare un danno non solo alle donne ma a tutto il nostro Paese.

2. Per scoraggiarla occorre che le indicazioni europee (2008) vengano recepite e tradotte in indirizzi chiari e poche norme semplici e vincolanti, tali da permettere di scoraggiare e sanzionare con maggior incisività la pubblicità sessista.

3. Lo Iap svolge un’attività meritoria, ma non è sufficiente. Va supportato.

Oggi tratterò il primo punto.

1. La nostra pubblicità è tra le più sessiste del mondo.
La “profonda preoccupazione per la rappresentazione data delle donne, da parte dei mass media e della pubblicità, in quanto trattata come oggetto sessuale”, non è una preoccupazione solo mia e di qualche “sfigata vetero femminista”.
È stata espressa dal Cedaw (Committee on the Elimination of Discrimination Against Women)
ed era il 2005.

Cosa è il Cedaw.
The Committee on the Elimination of Discrimination against Women è un comitato di 23 esperti in diritti delle donne, provenienti da tutto il mondo.
Il loro ruolo è monitorare i paesi che hanno aderito, nel 1979, alla convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.

Cosa significa aderire al Cedaw.
Gli stati che hanno aderito alla Convenzione Cedaw si impegnano non solo ad adeguare a essa la loro legislazione, ma a eliminare ogni discriminazione praticata da “persone, enti e organizzazioni di ogni tipo”, nonché a prendere ogni misura adeguata per modificare costumi e pratiche consuetudinarie discriminatorie.

Gli “states party” sono obbligati a presentare regolari rapporti al Comitato. L’ultimo è stato presentato nel 2011. Il prossimo lo dovremo presentare tra due mesi, luglio 2013. Nel 2011 non fummo esattamente promossi. Qui trovate il rapporto completo.

Cosa non andò bene in particolare? Molte cose, troppe. Mi limito qui a riportare solo quelle direttamente collegate alla mia petizione online fermiamo la pubblicità sessista.

Punto 22. Stereotipi e pratiche lesive dei diritti delle donne
il Comitato esprime il proprio disappunto circa il fatto che lo Stato-membro non abbia sviluppato un programma completo e coordinato per combattere l’accettazione generalizzata di ruoli stereotipati tra uomo e donna, come raccomandato nelle precedenti Osservazioni Conclusive del Comitato. Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici, minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata delle donne in una serie di settori, incluso il mercato del lavoro e l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali, condizionano le scelte delle donne nei loro studi ed in ambito professionale e comportano che le politiche e le strategie adottate generino risultati ed impatti diseguali tra uomini e donne.

Anche la Relatrice Speciale dell’ONU contro la violenza sulle donne, nel suo rapporto sulla missione in Italia (2012), descrivendo la situazione generale delle donne nella società ha evidenziato che “ gli stereotipi di genere, che determinano il ruolo di uomini e donne nella società, sono profondamente radicati. Le donne portano un pesante fardello nei lavori domestici, mentre il contributo degli uomini è tra i più bassi al mondo. Con riferimento alla rappresentazione delle donne nei media, nel 2006, il 53% delle donne apparse in televisione era muta, mentre il 46% era associata a temi di sesso, moda, bellezza e solo il 2% a temi sociali e professionali

E già nel nel rapporto Cedaw del 2005 era possibile leggere, tra le raccomandazioni:
Che i mass media e le agenzie pubblicitarie siano indotti ed incoraggiati a
proiettare un’immagine delle donne come partner alla pari in tutte gli ambiti della vita e ci si sforzi di andare verso la stessa direzione, al fine di modificare la percezione delle donne come oggetti sessuali, e come responsabili in via principale della crescita dei figli.

Sapete perché, in sette anni, siamo passati dal 64° posto all’80° per il Global Gender Gap Report? Perché non abbiamo fatto nulla. Perché c’è chi ancora si ostina a negare l’esistenza del problema.

E sinché non sei consapevole di avere un problema non puoi risolverlo.

Il principale agente di socializzazione in Italia (la TV) è anche la principale fonte di inquinamento cognitivo per quanto riguarda la diffusione di “memi “ sessisti che favoriscono le discriminazioni di genere. La pubblicità non è tutto il problema ma è parte del problema, non solo in TV ma anche in altri media.

Quanto ci costa essere un paese sessista?
Non possiamo saperlo con precisione. Perché siamo sempre stati un paese sessista e quindi non possiamo nemmeno immaginare a cosa smetteremmo di rinunciare se, oltre al motore “uomo”, avessimo anche il motore “donna” a spingerci verso l’alto. Di seguito alcune considerazioni che spero inducano a riflettere.

Nel 2006 è donna il 58% dei laureati. È donna il 66% dei laureati con più di 106.
Ma secondo il Global Gender Gap Report, siamo al 101° posto (su 135) per le diseguaglianze relative alla voce “economic partecipation and opportunity”.

Secondo Giuliana Ferraino, con il 60% di donne occupate il prodotto interno lordo italiano crescerebbe tra il 6 e il 9% in più ogni anno.
Riducendo il divario occupazionale femminile tra Nord e Sud di 1.700.000 unità, il PIL avanzerebbe di 4-6 punti percentuali, stima Roberto Zizza della Banca d’Italia.

Secondo Cermes (centro ricerche Università Bocconi) e la società di consulenza Mc Kinsey, le donne imprenditrici realizzano mediamente maggiori profitti e corrono meno rischi.

E non è tutto. Chiudo questo lunghissimo post con le parole dell’Avvocata Barbara Spinelli
(qui potete leggere per intero il suo brillante intervento a Roma,10 dicembre 2012, nella sede del Ministero dello sviluppo economico, in occasione dell’anniversario della firma della Convenzione ONU sui diritti umani.)

La richiesta di una rappresentazione non stereotipata di donne e uomini da parte dei media, ed in particolare da parte del servizio pubblico, non è solo una questione etica. Quando si evidenzia la necessità di modificare la rappresentazione di uomini e donne, non entrano in gioco solo i valori, ma anche i diritti fondamentali della Persona, ed in particolare quelli di donne e bambine.

Ed infatti una rappresentazione stereotipata delle Persone costituisce una forma di discriminazione, lesiva della dignità della Persona.

Nello specifico, una rappresentazione della donna aderente ai ruoli tradizionali (brava madre e moglie, responsabile in via principali della cura della casa e dei figli, oggetto sessuale) costituisce una forma di discriminazione di genere, in quanto rafforza i pregiudizi sessuali e determina una maggiore tolleranza all’idea che la donna possa e debba avere un ruolo marginale nel pubblico e disponibile nel privato, generando così una maggiore esposizione di donne e bambine alla violenza ed alla discriminazione in settori della vita pubblica prevalentemente
maschili, ed ostacolando così l’accesso delle donne alle posizioni apicali nonché, più in generale, all’effettivo godimento dei diritti fondamentali.

Di più: la presenza di stereotipi di genere anche negli spot e nei programmi sia per bambini che programmati nelle fasce protette, determina gravissime ripercussioni anche sulla salute pubblica, contribuendo in maniera significativa alla formazione nei minori di una socializzazione di genere distorta, nonché all’insorgenza di disturbi alimentari e altre forme di disagio psicologico.

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