Postato il Dom 22 Gen 2012 da in La vita del Club

Bill: “La pubblicità deve dire la verità” – Grazie a Giuseppe Mazza e al suo manipolo di coraggiosi

Ecco il retro di “Bill”, la rivista trimestrale che Giuseppe Mazza ha presentato ufficialmente venerdì 20 gennaio.

Non parto dalla fine per attirare l’attenzione. È pertinente che io inizi dalla quarta di copertina perché questa rivista è veramente coraggiosa, dalla prima all’ultima pagina. Pubblicità comprese.
Del resto ci vuole davvero tanto, troppo coraggio. Non solo per morire a maggio, come il Piero di De Andrè, ma anche per sforzarsi di fare il mestiere del creativo pubblicitario nel solco tracciato da Bill Bernbach.

Eppure, come ha spiegato Pasquale Barbella durante la presentazione di “Bill”,

oggi c’è un grande bisogno di rispolverare la “lezione Bernbach” in Italia.

Ma perché riesumare un creativo pubblicitario nato nel 1911 ?
Lo illustra molto bene Guido Cornara nel suo articolo:

…abbiamo un disperato bisogno di Bill. Perché ha detto e soprattutto messo in pratica, cose che hanno dimostrato che la comunicazione pubblicitaria è qualcosa di diverso da quello che molta gente crede. Può essere qualcosa di diverso.

Può dire la verità. Anzi deve dire la verità.

La buona pubblicità (potremmo spingerci fino a dire la vera pubblicità) non offende, non inganna, non prevarica, non impone.
La vera pubblicità, come Bill ci ha insegnato, è esattamente il contrario dell’illusionismo. È la sua negazione.

La grande lezione di Bill, l’essenza forse della sua grande rivoluzione sta proprio in questo voler raccontare la verità.

Quanti operatori oggi, nelle aziende e nelle agenzie di pubblicità, sono consapevoli di questa grande lezione? Quanti ci credono? A giudicare da quello che vediamo, offline e online, pochissimi. Anche per questo sono sempre meno quelli che credono alla pubblicità, in Italia.

Patrizio Epifani, nel pezzo che apre il numero uno di “Bill”, prende spunto dall’utilizzo del termine pubblicità sui giornali per arrivare a un’amara quanto vera conclusione:

Pubblicitario non è il nome di un mestiere – del quale ben poco si sa – ma un aggettivo. Squalificativo.

Non a caso ho scritto insieme ad Annamaria Testa e Pasquale Barbella il Manifesto Deontologico dell’Adci, e il primo principio che abbiamo ricordato riguarda proprio l’Onestà:

La fiducia è uno dei pilastri su cui si fonda ogni società civile. Tradire la fiducia di altri esseri umani è una forma di inquinamento morale che rende tutti più vulnerabili. Per questo noi soci Adci ci impegniamo a evitare espedienti retorici tesi a creare aspettative che il prodotto o il servizio pubblicizzato non sarà mai in grado di soddisfare. Fuorviare il pubblico a cui parliamo indebolisce il nostro stesso lavoro.

“Tutti noi che per mestiere usiamo i mass media contribuiamo a forgiare la società. Possiamo renderla più volgare. Più triviale. O aiutarla a salire di un gradino”

Nel ricordare questa frase di Bill, Pasquale Barbella ne ha sottolineato anche l’implicita connotazione tecnica (oltre che l’evidente risvolto etico):

Nel momento in cui un inserzionista qualsiasi compra spazi pubblicitari sui giornali, sui muri, sugli schermi, alla radio o altrove, egli diviene di fatto – nel bene e nel male – un operatore culturale. Non più soltanto produttore di automobili o bevande, ma anche diffusore di idee, commentatore, opinionista, istruttore, propagandista, divulgatore di principi e di visioni del mondo. Un inserzionista che sia minimamente consapevole della bomba che ha comprato e che adesso stringe tra le dita dovrebbe farne un uso oculatissimo. Egli ha acquisito un potere che la sola competenza del marketing non basta a giustificare. Conosce a menadito la composizione e il gusto delle sue caramelle, il mercato dolciario, la concorrenza, il cervello e le passioni dei suoi “consumatori” reali e potenziali, i canali di vendita, gli obiettivi che la sua azienda si prefigge; ma gli sfugge, perché nessuna Bocconi glielo ha mai insegnato, il senso squisitamente editoriale di ciò che sta per compiere attraverso i mass media.

Gli sfugge, aggiungo io, perché troppe volte sono gli stessi pubblicitari a non ricordarglielo.

Anche per questo ritengo che oggi l’Art Directors Club Italiano, più che auto definirsi il Club dei migliori creativi pubblicitari debba posizionarsi come l’unica associazione i cui membri sono accomunati da una visione etica della comunicazione. L’unica i cui soci perseguono nei fatti questa visione.
Le evidenze a supporto sono i circa 5000 lavori che negli ultimi 25 anni abbiamo selezionato e premiato pubblicandoli nel nostro Annual Adci. Andate a riguardarveli (io l’ho fatto), non troverete violazioni a principi e avvertenze espressi nel nostro Manifesto Deontologico.

L’estetica, come la creatività vera, è sempre etica. Ma abbiamo trascurato di spiegarlo all’esterno, permettendo di essere confusi nel mucchio selvaggio dei “pubblicitari”. Mucchio che per opinione pubblica e stampa, come argomenta Patrizio Epifani, comprende anche l’ex Primo Ministro Silvio Berlusconi.

Il nostro arrocco, troppo a lungo prolungato, ha di fatto lasciato campo libero a improvvisazione e incompetenza. Con la conseguenza che oggi ha essenzialmente ragione chi definisce “inquinatori cognitivi” i pubblicitari.

Da questo punto di vista ritengo “Bill” potenzialmente più utile degli ultimi dieci annual Adci.
Spero di vedere “Bill” sui tavoli dei direttori marketing oltre che nelle agenzie di pubblicità. Spero di vederlo nelle università.
Spero di vedere più Bill in giro nei prossimi anni. Online e offline.

Vi lascio a “nove comandamenti”, in realtà citazioni prese da Bernbach, che una decina di anni fa Marco Carnevale postò nella mailing list Adci, aggiungendone uno, il decimo, suo. È l’unico che non invito a seguire, pur con tutta la stima che ho per Marco. Anche perché lui per primo ha dimostrato di non crederci, con comportamenti che oggi definirei “antischettiniani”.

Il motivo per cui non è proprio il momento, secondo me, per lasciare campo libero ai “barbari”, lo trovate proprio all’inizio del Manifesto Deontologico Adci:

Noi soci adci siamo consapevoli del fatto che la comunicazione commerciale diffonde modi di essere, linguaggi, metafore, gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo: la struttura mentale condivisa e potente, tipica della culture di massa, che si deposita nella memoria di tutti gli individui appartenenti a una comunità, e ne orienta opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani.

Ecco i “comandamenti” di Bill (più quello di Marco Carnevale).

1. La verità non è verità fin quando la gente non ti crede; e la gente non può crederti se non ti sta ascoltando; e non ti ascolterà mai se non sarai interessante. E non sarai mai interessante se non dirai le cose in modo fresco, intelligente e fantasioso.

2. In comunicazione, la familiarità genera apatia.

3. Sii provocatorio. Ma assicurati che gli stimoli nascano dal prodotto stesso. NON E’ GIUSTO mettere in un annuncio un uomo a testa in giù solo per attirare l’attenzione. E’ GIUSTO mettere un uomo a testa in giù per dimostrare che il prodotto impedisce alle cose di cadergli dalle tasche.

4. Il nostro lavoro consiste nello sconfiggere quel tipo di abilità che mette in luce noi stessi invece del prodotto. Il nostro lavoro consiste nel semplificare, nell’eliminare ciò che non è pertinente, nello strappar via le erbacce che soffocano il messaggio del prodotto.

5. Posso mettere su una pagina l’immagine di un uomo che piange, ed è soltanto l’immagine di un uomo che piange. Oppure posso mettere la stessa immagine in modo che faccia venire da piangere. La differenza sta nell’abilità creativa: quella cosa intangibile di cui il mondo degli affari diffida.

6. Se prendi posizione nei confronti di qualcosa, troverai sempre chi è con te e chi è contro di te. Se non prendi posizione su nulla, non avrai nessuno contro ma neanche nessuno con te.

7. Usa per lavorare il linguaggio che usi per vivere.

8. Adatta la tecnica all’idea, non l’idea alla tecnica.

9. Non fare perdere tempo a chi ti legge.

10. Procurati al più presto un passaporto. E soprattutto usalo.

Nel numero di gennaio Guido Cornara intervista John Hegarty; Pasquale Barbella su Bernbach; Speciale Primavera Araba, con interviste all’egiziano Ali Ali e Nicolas Courant dalla Tunisia, entrambi oro Cannes 2011; un reportage di Reed Young sugli slogan di Occupy Wall Street; un diario da NY sulle primarie Usa e altro ancora. La copertina e alcuni servizi interni sono di Alvaro Tapia, illustratore cileno già collaboratore di Wired e Piauì. Art director Franz Degano, assistant art director Luca Riva, web designer Jacopo Caracci.

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