Fenomenologia del Faking, I – di Pasquale Barbella
Falso, finto, sintetico, artificiale, contraffatto, simulato. Queste le traduzioni da dizionario dell’aggettivo inglese fake, entrato con prepotenza nel gergo degli addetti alla pubblicità (specialmente art director e copywriter) da non molti anni a questa parte. Il sostantivo sta per “falso” ma anche per “imbroglione, truffatore”. Neanche il dizionario, che è neutrale per statuto e vocazione, concede attenuanti al fake: non uno solo dei suoi significati sfugge alla riprovazione del lessicografo.
Nella pubblicità contemporanea la pratica del fake è comunque talmente diffusa da indurci a sospettare che gli estimatori della truffetta non siano una sparuta minoranza. Quanto agli osservatori esterni, tra cui mi metto anch’io, farebbero volentieri a meno di parlarne se il fenomeno non avesse assunto, di recente, proporzioni tali da generare furiose ed estenuanti polemiche nell’ambiente. E non si tratta semplicemente di essere contro o di essere pro; le implicazioni del fake sono varie e complesse, e meritano un tentativo di considerazione approfondita.
Intanto non è semplicissimo definirlo. In altri contesti, il falso (d’autore o da strapazzo) è l’imitazione d’un originale: tende a riprodurre gioconde, banconote, passaporti, procurando al falsario benefici o punizioni di entità variabile ma di indiscutibile concretezza. Il falso pubblicitario procede invece da impulsi, per così dire, idealistici: aspira alla legittimità e a misurarsi con altre prestazioni originali, sia autentiche sia altrettanto volatili e astratte. Non vuole essere il doppione di qualcos’altro, ma infiltrarsi nei media, o nei concorsi, o in entrambi, per reclamare a gran voce la propria unicità (vera o presunta) e procurare consensi e gratificazioni al suo autore.
Proviamo ora a classificare, con metodo, le esperienze fake e a misurarne i moventi, le caratteristiche e gli effetti. Come i sismologi, anche noi avremmo bisogno di un’adeguata scala Richter per misurare il peso, l’estensione e la gravità del fenomeno. Questa scala non c’è. Anzi non c’era. La invento io, per mia e vostra comodità.
Soft fake.
Manipolazione parziale di un’opera pubblicitaria autentica, cioè realizzata su ordinazione e previa approvazione di un committente, diffusa attraverso canali di comunicazione vecchi e nuovi. Si tratta, di solito, di modesti face lifting (o, se preferite, fake lifting) eseguiti allo scopo di abbellire il lavoro e renderlo degno d’un portfolio rispettabile nonché di gareggiare, all’occorrenza, in una competizione a premi. Il dolo c’è, ma spesso si tratta di peccato veniale: soprattutto quando l’opera era stata concepita come appare dopo la correzione, ma aveva dovuto subire uno sfregio perpetrato da terzi. Come se il fantasma di Michelangelo, per intenderci, fosse andato personalmente a togliere le braghe che il Concilio di Trento aveva imposto ai suoi ignudi nella Cappella Sistina. La materia, nel nostro caso, è meno solenne: un logo più piccolo, uno strillo in meno, un po’ d’aria in più. Il soft fake suona insomma come un tentativo di rivendicazione e di restauro, da parte di autori umiliati dalle ostili procedure di una immeritevole clientela.
Se il restauro affronta una sessione di giudizio, può incontrare tre tipi di giurati: quelli che non si accorgono del lifting; quelli che se ne accorgono ma chiudono un occhio; quelli che se ne accorgono e gli infliggono una bastonata. Se l’alterazione è minima starei fra i tolleranti, perché sono tollerante di natura; preferisco però la trasparenza (tollerare non vuol dire approvare), anche perché nella vita ho imparato che i veri capolavori sanno resistere stoicamente a qualche difetto. Il mio film preferito, Psycho, ha più difetti di una Trabant di seconda mano: ciò non toglie che si tratti di un’opera geniale.
Ordinary fake
È il genere di fake più comune e più intrusivo: una specie di microcrimine legalizzato. Le procedure che lo sostengono sono a prova di call for entry (i regolamenti di iscrizione a festival e altri concorsi professionali). Le norme di partecipazione ai concorsi devono essere semplici, immuni da distinguo e sottodistinguo complicatissimi da congegnare e da condividere; si limitano, nella fattispecie, a esigere che i lavori iscritti siano effettivamente comparsi sui media e non inventati di sana pianta per vincere un premio.
Superare lo scoglio è fin troppo facile. Basta procurarsi un cliente piccolissimo (il ristorante di fronte, il tattoo shop all’angolo) o, meglio ancora, convincere un cliente di qualsiasi taglia che l’annuncio è gratis e non gli recherà alcun danno; uscire una volta su qualche gazzetta a basso costo, e il gioco è fatto. Tutto regolare.
Gli ordinary fake producono reazioni in parte passive e in parte bollenti. I più sospettosi esigono, a ragione, controlli notarili sull’origine e l’iter mediatico del pezzo in discussione. Ottenuti i controlli, e accertata la pubblicazione una tantum sul bollettino parrocchiale di Roccacannuccia, possono mettersi l’anima in pace o proseguire la battaglia innescando polemiche sui blog e altrove. Il vero problema, come vedremo, non sta nei fake ma nella sgangherata simpatia che producono. Piacciono perché divertono, come piacciono e divertono le barzellette ben raccontate, specialmente se trucide. E le droghe. Per questo proliferano in continuazione. Per questo i portfolio di una volta stanno diventando dei fakebook.
Hard fake
Qui l’astrazione rasenta il sublime. Lavori mai usciti da nessuna parte (se non, qualche volta, su Archive o sul sito Ads of the World), realizzati senza la complicità e i soldi di alcun committente e, addirittura, per prodotti fake di aziende fake. L’obiettivo è sempre lo stesso: mettersi in luce, ostentare un talento quotidianamente frustrato da troppe esperienze negative di lavoro vero, strappare un riconoscimento o, almeno, un po’ di patetica visibilità. (continua qui)